Voglio vivere in un’altra lingua

Corriere della sera - La lettura - agosto 2012 19 ottobre 2012 Articoli e recensioni
Voglio vivere in un’altra lingua

La poesia è l’unica arte che ha cambiato, nel tempo, il suo medium di trasmissione: partorita dalla bocca che la pronunciava, da qualche secolo tace, emigrata dal suono ai segni. In esilio dalla voce. Ma la rivoluzione tecnologica e digitale le ha paradossalmente ricordato le sue origini.
In tutto il mondo essa ha così ripreso la parola, ha iniziato a mescolarsi con altri media, ha rincontrato la musica, a braccetto della quale aveva camminato sin dalle origini, si è fatta video, performance, ha raggiunto grandi fette di pubblico grazie al Poetry slam. E qui da noi? Qui da noi è piena Civilisation du Papier, come avrebbe detto Henri Chopin.

Le case editrici fuggono a gambe levate da qualsiasi apertura verso media diversi: dall’ormai ‘sbiancata’ Einaudi, allo Specchio Mondadori, a Garzanti, e via così, se la poesia in catalogo c’è, è poesia di carta, in collane dirette esclusivamente da pasdaran della lirica ‘muta’, veri feudi, da decenni nelle mani dei medesimi baroni, che si limitano a riproporre cloni di se stessi, o repliche infinite di ciò che già piace (a loro), in assenza di qualsiasi seria ricerca del nuovo, scritto o orale che sia. E quando si prova a far qualcosa di diverso, come Bompiani, decenni fa, si concepisce il Cd come un gadget da aggiungere, che poco o nulla ha a che fare con quanto proposto dal libro. Se, a distanza di tempo, si ritenta, come ha fatto Transeuropa, la solfa non cambia di molto.

Per altro verso, poiché è evidente a tutti l’appeal e l’efficacia dell’oralità, anche coloro che non perdono occasione di negare ogni valore allo spoken word, sono poi lesti a saltare sul proscenio e a balbettare i loro versi alla meno peggio, né, taluni di codesti poeti ‘muti di guerra’ (per dirla con Gadda), si negano, per mascherare la pessima qualità della loro esecuzione orale, un’occasionale orchestrina d’accompagnamento, quasi che la poesia fosse una vecchia signora, bisognosa di una badante in chiave di violino, o fosse così semplice realizzare il ‘temperamento’ tra poesia e musica, far risuonare davvero il ritmo che è già nei versi.
Non mancano, peraltro, orde di performer improvvisati, arcadi dell’avanguardia e trombonesche letture attoriali, o imbarazzanti tentativi di video-poetry, come quello di Magrelli che dice i suoi versi su un’altalena che dondola nel cielo metropolitano.
Il Poetry slam, intanto, snobisticamente ignorato dai letterati, è lestamente rubato dal marketing, per promuovere la furberrima Mazzantini, che almeno ha il naso per intuire il vento che soffia.

La Rete, che pure potrebbe costituire un’alternativa (anche multimediale) a tutto questo, si è spesso limitata ad essere una riproposizione digitale, liquida, di ciò che già viveva allo stato solido, cartaceo, silente, mentre Facebook , per le sue stesse caratteristiche, non fa che sviluppare le singole individualità, frammentando la vera forza della Rete, che è la sua capacità di fare sinergia, disperdendola in mille frammenti, fatalmente deboli, diluendola in un flusso scritto, ma impermanente, che non si fa mai rizoma ‘concreto’. Né la critica fa di meglio: gli studiosi italiani, anche i giovani, sono quasi tutti dei critici ‘a una dimensione’, filologi integrali, capaci di leggere solo il testo scritto, e nascondono questa loro evidente povertà di strumenti d’analisi di un evento così complesso e plurale come la poesia odierna, facendo finta che oralità e multimedialità semplicemente non esistano.

Il top della riflessione è, oggi, la polemica tra Carabba e Ostuni, prigioniera di vecchi e inutili bipolarismi Avanguardia/Tradizione, quasi che non fosse ormai chiaro come l’unico modo per rispettare davvero una Tradizione sia rinnovarla e che la Tradizione non è, in fondo, che genealogia dell’Avanguardia.

Tutto ciò che di nuovo pure c’è, e non è poco e a volte di qualità altissima, è spesso strozzato alla nascita, sommerso dall’improvvisazione e dall’ipocrisia, mentre qualsiasi nostalgia di futuro è dispersa nel Medioevo dei privilegi libreschi e ogni proposta editoriale realmente innovativa è puntualmente assassinata dalla gogna cinica della distribuzione e dal monopolio ottuso delle grandi catene di vendita, nell’indifferenza della stampa specializzata. Una situazione triste, che fa venir voglia di andarsene lontani da questa nazione che il più grande e ignorato dei nostri poeti contemporanei, Emilio Villa, chiamava Ytaglia: di andarsene a vivere in un’altra lingua.


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