Filosofi e papere

Il Fatto Quotidiano online aprile 2020 9 aprile 2020 Noterelle dai luoghi del Carogna-Virus
Filosofi e papere

Filosofi e papere

Qualche tempo fa ha fatto gran rumore e ha sollevato infinite critiche l’intervento del filosofo Giorgio Agamben sul blog di Quodlibet a proposito di controllo globale in tempo di Carogna-Virus. Ad esso è poi seguito un secondo e un terzo intervento.

La tesi sostenuta, a partire dall’assunzione che il Carogna-Virus fosse, più o meno, un normale virus para-influenzale, sostenuta poco prima in un altro breve scritto, era che grazie a questa situazione epidemica sarebbero stati messi in atto una serie di controlli globali che avrebbero limitato la nostra libertà individuale e che avrebbero minato la catena di solidarietà sociale a partire dall’equazione contatto (sociale) / contagio.
La nostra scelta di privilegiare la “nuda vita” metterebbe in grave pericolo la nostra “buona vita”, che è, inevitabilmente, diversa: politica, storica, sociale e socievole.

Che il Carogna-Virus sia qualcosa di ben diverso di un’influenza mi pare sia oggi sotto gli occhi di tutti. Dunque le premesse delle prime riflessioni di Agamben (che sulla faccenda poi glissa con stile) sono evidentemente errate. A partire da tutto ciò, Agamben è stato letteralmente lapidato.

Ciò che non si nota, o che si nota meno, è che l’analisi di Agamben, almeno nel suo aspetto politicamente basilare, regge comunque, sia che il morbo di cui si parla sia davvero una semplice influenza promossa, per oscuro complotto politico, a pandemia, o, invece, come evidentemente appare, qualcosa di assolutamente ‘naturale’ e molto più grave, letale, prima di tutto per le strutture di welfare delle nostre società interconnesse ed affollatissime. Anzi, vale a maggior ragione nel secondo caso.

Più l’epidemia è grave, tragica, reale, più ci toccherà da vicino e più saremo disposti, per ragioni ‘biologiche’, di stretta sopravvivenza, ad accettare ogni e qualsiasi limitazione alle nostre libertà. Il fatto che il suo accadere sia indipendente da una specifica volontà politica, da questo o quel complotto, non significa che non ci sarà chi tenta e tenterà di approfittarne.
È il delitto perfetto, insomma.

La globalizzazione è intrinsecamente pandemica, credo che questa sia un’inoppugnabile evidenza: lo scambio è il meccanismo fondamentale dell’economia capitalista, come della diffusione di qualsiasi contagio, di ogni nuova peste. Lo stato di eccezione è dunque la normalità che probabilmente ci attende.
Inoltre, com’è evidente a tutti, ogni pandemia è anche un’infodemia, una patologia dell’informazione e della libertà di parola: in tempo di peste si parla solo di peste. La bulimia del contagio si mangia ogni diversa eventualità, è l’unica ad essere interessante e ad interessarci, contagiando a morte il nostro immaginario.
È precisamente per questa ragione che l’allegra brigata del Decameron, in fuga dalla Firenze ammorbata, decide, per passare il tempo, di narrarsi storie ‘altre’, che della peste non facessero cenno alcuno.

Oggi conosciamo con esattezza – ma lo sapevamo già prima, in realtà, anche se non eravamo disposti a rendercene conto sino in fondo – quale sia il prezzo che NON siamo disponibili a pagare per proteggere la nostra libertà: mettere in pericolo di vita noi e i nostri cari. La nostra “nuda vita”.
È certamente ovvio e assolutamente comprensibile.

Ma è una pessima notizia. Perché se, come dicevamo prima, la nostra società globalizzata, iper-popolata e iper-connessa, accelerata allo spasimo, ultraliberista, è intrinsecamente pandemica, allora la democrazia se potrà (e non sono affatto sicuro che possa) sopravvivere a questo primo scontro, dovrà reiventarsi dalle basi.
Allo stato ciò che sappiamo, sulla base di dati obiettivi, è che una democrazia non può combattere un’epidemia, a meno di smettere di essere una democrazia.
Nel momento in cui ogni relazione interpersonale diviene sinonimo di contagio non c’è più alcuna libertà. Che a imporcelo sia la scienza è dato utile a modificare in maniera efficace i nostri comportamenti, a salvarci la pelle, augurabilmente, ma non a rendere una condizione di perdita di diritti differente da quella che è, adesso e qui.

Ciò che sta accadendo nell’Ungheria di Orban, ammiratore delle Croci frecciate, è sotto gli occhi di tutti, l’evidente utilità ‘medica’ e persino ‘politica’ di tracciare oggi tutti i movimenti dei nostri corpi è irrespingibile.
La nostra privacy e la nostra libertà di movimento perdono di importanza, se a essere messa in pericolo è la sopravvivenza dei nostri corpi.

Qui, però, non si tratta tanto, come mi pare faccia Agamben, di mettere in contraddizione la ‘nuda vita’ con la ‘buona vita’, quanto piuttosto, con Benjamin, a partire dal fatto che la vita umana è precisamente l’unione della sfera naturale (biologica) con quella politica (storica, o morale se si preferisce), fare i conti con la contraddizione apparentemente insolubile che ci troviamo di fronte. Perché la democrazia è qualcosa che riguarda i nostri corpi, ancor prima e ancor più sostanzialmente che le nostre menti.

O saremo capaci di ripensare il rapporto tra libertà individuali e pandemia, insomma, o saremo incapaci di combattere la guerra che verrà, che non sarà medica, ma squisitamente politica.

È di questo, credo, che vuole parlarci Agamben.
Forse è il caso di ripensare a quanto, sbagliando, abbia detto di fondamentalmente corretto.
E forse è opportuno riflettere anche su ciò che sostiene nel suo terzo intervento, di pochi giorni fa, e cioè che se è stato possibile imporci questo tipo di vita senza alcun moto di ribellione da parte nostra, è perché vivevamo, in fondo, già così.

Come diceva Saramago, che filosofo non era, nel suo, ormai celebre, Cecità: «Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono».

Non c’è, ahimè, alcun ritorno alla normalità da attendersi, o da augurarsi.

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