Parole

Il Fatto Quotidiano online aprile 2020 18 aprile 2020 Noterelle dai luoghi del Carogna-Virus
Parole

Come si stanno comportando le parole nel tempo del Carogna-Virus? A guardare (e a leggere) anche superficialmente, ciò che salta all’occhio (e all’orecchio) è che certe parole, certe espressioni, stanno dilagando, alcune parole, determinate metafore ne scacciano altre, mentre ce ne sono che sembrano svanite.

Per esempio, c’è qualcosa di intimamente perverso e vergognoso nel paragonare il tentativo di fermare la pandemia e di salvare più vite umane possibile a una guerra. Che è l’esatto opposto di questo. Come facevamo prima, chiamando le guerre ‘missioni di pace’. Anzi addirittura peggio. Un medico e un soldato non hanno nulla in comune: uno sta lì per salvare vite, l’altro per annientarle. Dunque chi metaforizza così sta, probabilmente, usando il linguaggio per mascherare la verità, per nascondere a tutti ciò che in realtà sta avvenendo.

In cosa ci guadagna la nostra comprensione di ciò che sta accadendo se, invece di concentrarci sul fatto che il nostro è, prima di tutto, un problema sociale, politico, medico, immaginiamo di essere al centro di una guerra, con soldati al fronte che sterminano il nostro supposto nemico (che sarebbero i bis-miliardi di Carogna-Virus che sono in giro)? Un surplus d’odio nelle nostre giornate recluse?

Certo odiare qualcosa o qualcuno ci aiuta, orwellianamente, a gestire le nostre rabbie e soprattutto le nostre desolazioni e il senso d’impotenza che ne deriva, ma difficilmente aiuta a risolvere i problemi, anzi tende ad aggravarli. Chi la gestirà, tutta questa rabbia contro il ‘nemico invisibile’, se per caso dietro l’angolo ci aspettasse una Bio-Caporetto?
Definire la decisione di investire enormi capitali in welfare come ‘un’enorme potenza di fuoco’, non rischia di solleticare la pancia di ogni stolto sovranismo, quando invece potrebbe essere indicata meglio facendo riferimento a ben altro, che so? Alla ‘social catena’ leopardiana? Una guerra è, in buona misura, un evento volontario, una scelta che si dichiara. A chi dovrei arrendermi, visto che sarei in guerra, se volessi alzare bandiera bianca di fronte al Carogna-Virus?

Immagino che tutto questo stia là per impedirci di vedere che l’unica guerra che qui si sta combattendo è quella dell’ultraliberismo capitalista contro se stesso e soprattutto contro di noi, nella pretesa ‘stupida e sciocca’ di continuare a imporci stili di vita dissennati con alla base solo la voracità violenta del profitto. Un’operazione, per stare al linguaggio militare, di ‘disguised flag’. La metafora, errata e tendenziosa, distraente, sta lì apposta per illuderci, mentendo, che la fine del capitalismo sia anche, necessariamente, la fine del mondo, di ogni società.

Una parola di cui invece si sono perse le tracce, anche se mi sarei aspettato di sentirla risuonare e di doverla leggere a ogni pie’ sospinto, è la parola ‘catastrofe’.
Tutti, quando non utilizzano la metafora in mimetica, parlano innanzi tutto di crisi, di emergenza, al limite di tragedia, ma non di catastrofe. Ora a stare al significato proprio di queste parole, una crisi è un punto di svolta, che può creare un’emergenza e finire addirittura in una tragedia Ma la crisi resta, sostanzialmente, un momento di scelta: le crisi sono un momento strutturale dei cicli economici capitalistici, sono insomma perfettamente compatibili con quelle che Leopardi chiamò le ‘magnifiche sorti e progressive. Dove c’è crisi, c’è progresso. La crisi è in qualche modo la garanzia che superata la svolta, tutto riprenda come prima e meglio di prima. Come si dice di questi tempi: #andràtuttobene.

Catastrofe significa, invece, ben altro: dal greco καταστρέϕω , cioè ‘capovolgere’ e ha per sinonimi ‘rivolgimento’ o ‘rovesciamento’.In buona misura, cioè, catastrofe è sinonimo di rivoluzione. Mi rendo conto che la questione imbarazzi chi governa in nome del danaro e della produzione e che quindi la si eviti (magari per evitare il panico) e mi rendo anche conto che forse c’è un pizzico di ingenuo ‘millenarismo’ nel tirarla fuori ora.
Probabilmente non crollerà tutto adesso, probabilmente di catastrofi così ce ne vorranno altre per convincerci infine che così non va e non è possibile continuare così all’infinito, ma certamente quanto sta accadendo ha aspetti molto ‘catastrofici’, nel suo dimostrarci una serie di cose che fino a ieri ci siamo dannati a negare. Nel rallentarci brutalmente e nel rimporre lo scorrere del tempo della vita, liberandoci dal tempo, forsennato, della produzione. Ricordandoci che non è e non può essere l’economia la chiave di ogni nostra decisione, di ogni possibile scelta. Che essa non è un valore etico, ma solo una contingenza storica e che essere vivi è più importante di essere ricchi, o che riunirci liberamente è più importante di consumare tanto e sempre un po’ in più di altri, che siamo mortali, fragili e che non abbiamo affatto colonizzato il pianeta con le nostre tecnologie, che restiamo, insomma, esattamente come quelle formiche della ‘Ginestra’, sterminate dalla semplice caduta di una mela “che maturità, senz’altra forza, atterra”.

La buona notizia è che poi codesta catastrofe riguarda prima di tutto LorSignori. Molto meno noi altre formiche.
La buona notizia è che, ora che lo sfruttamento del lavoro dei poveri è diventato diffusione dolosa del contagio, forse potremo tornare a urlare nelle piazze: lavorare meno, lavorare tutti!
E, visto che ci siamo, potremo aggiornare lo slogan di anni lontani con una chiosa, che male non ci sta: vivere tutti, morire meno!
Così sarà inoppugnabile.

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