Novissimi, back in action...

28 dicembre 2003 Articoli e recensioni
<i>Novissimi</i>, back in action...

Ricominciano a circolare. Roba da non credere… E pensare che erano divenuti quasi merce proibita, nell’autunnale (e anche un po’ invernante) falso-aprile che seguì, come da profezia ’innamorata’ di Giuseppe Conte, il Marx (e il Freud, e lo Jung, e lo strutturalismo e la semiotica) degli anni Sessanta e Settanta. Costretti in un angolo buio dalla mediocrità acquiescente dell’editoria yuppie e dei suoi vati in versi.
Parlo delle poesie dei Novissimi e del Gruppo 63. Messi all’indice per più di quattro lustri dall’ideologia trasparente e neo-romantica dell’ineffabilità poetica, apprendista complice dei relitti di quel neo-crepuscolarismo da ultimo singulto del Novecento contro cui si scagliava la proverbiale acribia critica di Alfredo Giuliani già nel 1961.
E ciò non tanto per l’eco, assai poco addomesticabile, garantita dai supposti nipotini del Gruppo 93, che in realtà hanno goduto, e molto, a rifarsele da sé le geneaologie, pur mostrando, spudoratamente, un’ debole’, per gli zii neo-avanguardisti, quanto, piuttosto, per un evolversi del reale, che spietatamente sta facendo giustizia delle profezie scellerate di poeti che probabilmente erano poeti almeno quanto profeti. Cioè assai poco.
La Storia non è finita (anzi si dà da fare come non mai), la sperimentazione poetica nemmeno (ed anch’essa dimostra la solita, maleducata, vitalità). Con buona pace della maggior parte dei direttori editoriali delle major italiane.
Così capitano cose che fino a qualche tempo fa nemmeno avrei immaginato. Ed esce di nuovo, nella tristemente prudente, castigatissima Collezione Bianca della Einaudi - dopo un ostracismo durato la bellezza di ventitré anni - la sesta riedizione dei Novissimi, mentre Balestrini colleziona altre due magnifiche sillogi, appena all’indomani della raccolta completa delle sue Signorina Richmond (1999) e dell’Elettra (2003).
La prima tra queste è un’autoantologia Tutto in una volta, che presenta - a voler qui riprendere il dettato del sottotitolo - 50 poesie per 50 anni, tanti quanti sono ormai quelli di attività del poeta milanese. Essa disegna, così, una sorta di autoanalisi e autogiudizio critico sul mezzo secolo di una poesia che è stata, sin dall’inizio, capace di mordere al collo la comune lettura del reale, svelandone crepe ed ipocrisie, ma anche rabbie e utopie.
Si va dai primi testi, dell’ormai lontano 1954, al Sasso Appeso del 60 e poi a Tape Mark 1, dell’anno successivo (prima poesia al mondo scritta con l’ausilio di un computer), su su, fino alla stagione aspramente politica di Ma noi facciamone un’altra (1968), della Signorina Richmond 1977), di Blackout (1980), e alle esperienze più prossime de il Pubblico del labirinto (1989), Estremi rimedi (1995), Elettra (2003). Insomma, il meglio di Balestrini secondo Balestrini. Che non è poco.
Ciò che colpisce - pur nel mutare di una scrittura peraltro, tutto sommato, sempre fedele ad alcuni chiari e mai rinnegati obiettivi - è la sua capacità di restare attuale, la mai spenta urgenza di sperimentare, esprimere e, perché no?, denunciare. Si prenda l’esordio di un testo del 1960, Il sasso appeso, e la carica di attualità dei suoi versi apparirà con evidenza stupefacente: «Ma dove stiamo andando col mal di testa la guerra e senza soldi? / oltre il tergicristallo ronzante denotando una reale / e comune volontà di riscatto? Che sciocchezze!». Nessuno creda, però, che quello di Balestrini sia un sunto finale. Per accorgersene è sufficiente gettare l’occhio sull’intreccio dei versi di Elettra, testo fortemente utopico, scritto appena ieri per essere detto ad alta voce, o a Sfinimondo, poemetto che sarà nelle librerie a giorni per "Bibliopolis", ultima fatica in cui i segmenti di frasi si inseguono da un verso all’altro, si raggomitolano su se stessi provocando nel lettore una vertigine salutare, suggerendogli che l’impossibilità di trovare un senso, non ci esime certo dal continuare a cercarlo, dal braccarlo, tra un a-capo e l’altro, trasformando il lettore, da passivo degustatore, a complice.
Ciò che vale per Balestrini vale anche per questa sesta edizione dei Novissimi che è qualcosa di più che la riproposta di un ’piccolo classico’ della poesia contemporanea. Sta a dimostrarlo, prima di tutto, la scelta di Alfredo Giuliani, che vi aggiunge una nuova, preziosa, Introduzione, a testimonianza che il discorso non è ancora chiuso, che quell’antologia ha ancora la sua da dire.
Essa, terza in ordine di apparizione (dopo quella del 1961 e la successiva, del 1965), chiude la triangolazione e con lucidità ripercorre le tappe che portarono alla nascita del libro e, insieme, ne verifica la tenuta a quarant’anni di distanza, ne mette alla prova la capacità di continuare a parlare alla poesia e al suo pubblico.
La dinamicità di questo libro, il suo essere contemporaneo alla sua contemporaneità e, dunque, la sua capacità di essere vivo anche oggi, che tanto, se non tutto, è cambiato, tanto nella letteratura quanto nel reale, sta nella possibilità di leggerlo ancora una volta in modo diverso, nel suo moltiplicarsi, passando da ’presente’ a ’presente’.
E così ci sono passaggi e temi dell’Introduzione di Giuliani che sottoscriverei per l’oggi, e che mi sembra abbiano accomunato, si parva licet, 63 e 93, come quello dei ’rompimenti’ («ciò che ci stufa, ciò che ci va di rompere»), così li chiama Giuliani, il problema di un’identità di gruppo cercata, prima che in unanimità di vedute, o nell’omogeneità delle scritture e delle scelte, nel tracciare differenze, marcare confini. «Dai "rompimenti" , insofferenze rovelli e slanci era nata l’idea di questo libro (…). C’è una differenza decisiva tra chi sente il rovinìo delle forme esaurite, e ne è pungolato, e chi non se ne accorge e pensa di poterle continuare con manovre diversive». Lo stesso potrei dire per quanto Giuliani affermava, già nell’Introduzione del 1961, a proposito di ’stile’ e ’scrittura’. «La coerenza sta nell’essere passati dall’esercizio ormai inaridito di uno "stile" alle avventurose ricerche e proposte di una "scrittura" più impersonale e più estensiva. Il famoso "sperimentalismo".»
Mentre, ovviamente, per molti altri problemi, la mutazione del contesto (tanto letterario, quanto, prima di tutto, antropologico e sociale) rende visibili distanze e differenze. Come nel caso del rapporto tra verità e realismo, là dove Giuliani stabiliva un confine tra i Novissimi e gli altri, e anche all’interno dei Novissimi stessi: «Dei poeti qui raccolti mi sembra che il solo Pagliarani si sia fatto un problema di ’realismo’ letterario, ma sempre contrando la realtà sperimentata, mai credendolo un contenuto di per sé sufficiente a rinnovare la poesia. Tutti noialtri, ci siamo fatti un problema di verità, di rinnovamento strutturale, non di realismo coatto»(1961) Per noi, un trentennio dopo, il problema si è presentato, invece, come un’unità indissolubile, là dove verità significava soprattutto la capacità di inventare un nuovo ’realismo’, sia pure affatto mimetico e di secondo, o addirittura terzo grado, una scrittura capace di fare i conti col transgenderismo degli stili e con la virtualizzazione integrale ( e integralmente disintegrata) dell’esperienza. Ma erano dunque già postmoderni i Novissimi? Non credo, almeno non più di quanto il ’far gruppo’, o il gusto della polemica e la necessità di sperimentare, non faccia di noi, loro supposti nipotini, dei moderni, dei neo-neo-avanguardisti.
Giuliani, non a caso, riflette sul problema in questa sua nuova Introduzione, citando un suo scritto del 1959, sul «Verri»: «"Oggi cominciamo a non essere più moderni, anche se non siamo ancora qualche altra cosa." Una definizione mi pareva prematura, pressoché impossibile. Postmoderni? Non mi sarebbe mai venuto in mente. L’avrei giudicata una formula sciapa, vuota di significati».
Piuttosto, dunque, ultimi dei moderni, ma con già nelle narici il sentore ben preciso di quello che sarebbe seguito. Perché è proprio nell’essere integralmente ’moderna’ e novecentesca, per quanto terminale, e già rivolta a ciò che verrà poi, che l’esperienza dei Novissimi trova la capacità di andare oltre, di parlare con tanta persuasione ai più giovani (e postmoderni) autori delle generazioni successive. E’ la differenza che ha reso possibile il dialogo e il reciproco riconoscimento. Altro che nipotanze ed epigonismi, che, con buona probabilità, avrebbero piuttosto portato al reciproco, infastidito, misconoscimento.
Ovviamente, come dice la parola stessa nel suo declinarsi in apocalittico superlativo, dopo i Novissimi, e lo sostiene spesso Sanguineti, non poteva esserci nulla, al massimo il ’déluge’. Ma ciò che termina, e con evenienze di splendida poesia, poi, è solo il Moderno, o se preferite il Novecento. Non la poesia, né la sua storia, fatta di cambiamenti inopinati. Di ’armoniche’ spesso tanto consonanti, quanto dissonanti. Come la ’sciapa’ postmodernità, di cui parla Giuliani. Che a noi ex-93, postmoderni per destino anagrafico, ma non postmodernisti, a noi che ci univamo in pseudo-gruppo, o banda, o branco, nel 1989, mentre crollava il Muro di Berlino, ovviamente, ma Giuliani lo sa bene, sciapa non pare affatto. Piuttosto, direi, contemporanea, almeno quanto la fine del Novecento, il suo inverno (primavera sessantottina compresa), sembrò ai Novissimi.

Nanni Balestrini
Tutto in una volta
Edizioni del Leone

Nanni Balestrini
Sfinimondo
Bibliopolis

I Novissimi - Poesie per gli anni 60
A cura di Alfredo Giuliani
Einaudi

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