La poesia? Meglio dal vivo

L’Unità, 2006 2 ottobre 2006 Articoli e recensioni
La poesia? Meglio dal vivo

Si può essere d’accordo o meno sulla necessità per la poesia di dialogare con altri media, di farsi performance, viva esperienza del suono e del corpo, non si potrà però negare che lo spazio e l’interesse che queste tematiche stanno ottenendo cresce di giorno in giorno. Che si tratti di vere e proprie sperimentazioni in spoken word, o mixed media, o dei più timidi tentativi di tanti festival che ormai usualmente mescolano musica e poesia, magari limitandosi, un po’ superficialmente, a giustapporle, la poesia calca le scene da un po’ anche in Italia, come da tempo accade nel resto del mondo. Come dimenticarsi, perciò, di quei pionieri che negli 70 e 80, spesso nel disinteresse del mainstream, seguivano sentieri che oggi ci sembrano superstrade? E’ il caso di Massimo Mori, fiorentino, ottimo poeta, teorico ed organizzatore, che da anni sperimenta ed opera al confine di differenti linguaggi, tra suono, danza e teatro. Performer, è un suo testo recentemente edito dallo storico caffè fiorentino delle Giubbe Rosse, crocevia di poetiche e autori nel corso di tutto il 900, che raccoglie una sorta di dialogo del poeta con il critico Stefano Lanuzza, un dialogo fitto, che affronta molti dei nodi teorici della poesia performativa, offrendo, nel contempo, un interessante spaccato storico delle vicende della poesia italiana, dall’esperienza di Ottovolante, circuito alternativo fondato da Mori, che fu uno dei protagonisti della poesia italiana negli anni 80, sino a oggi.

Legate al medesimo ambito sono anche le tre nuove proposte che vengono da ‘d’if’, che presenta tre fra le voci più interessanti della nuova poesia italiana. Di Giovanna Marmo e della sua Fata morta ho già avuto modo di scrivere quando le fu assegnato il Premio Delfini: si tratta di un testo personalissimo e compatto, che segna la definitiva maturazione della poetessa napoletana, nel cui lavoro la stralunata e raffinata esecuzione dal vivo è fondamentale.

Gli Ultracorpi di Enzo Mansueto, poeta da tempo attivo con sperimentazioni colte e intelligenti che mescolano parole e suono, vivono di una lingua apparentemente piana, ma invece tesissima, asciugata sino all’osso, affilata come un coltello «L’involucro ripulsa nella camera / elettrizzata. Un inquisito ammasso / organico conduce come rame / il fascio scorporante. Buie lame / disossano dal tronco il suo collasso / Nei nervi il terremoto, lo sconquasso». Una lingua pronta, all’occorrenza, a farsi biforcuta sino al sarcasmo, come nella brevissima quartina intitolata Inizio delle trasmissioni: «Ci fu l’ultimo lampo e tutti a terra. / Ma si freddava solo quella guerra. / Poi: punte elettriche e altre radiazioni. / L’inizio armato delle trasmissioni.» Questi versi di Mansueto, insomma, sembrano quasi glosse da dire a ritmo, come lampi che illuminano il palco, mentre lui si esibisce con il suo progetto di poesia fonografica La zona Braille, glosse che non evitano lo scoglio ‘civile’, nella loro impietosa lettura di tante contraddizioni di quella che Mansueto con sagacia definisce la «Silvia Italia».

Elisa Biagini è, invece, poetessa che usualmente preferisce i versi stampati sui libri, come nei suoi due titoli più noti, L’Ospite, e Nel bosco. Nel volumetto uscito per l’editrice napoletana, Fiato, decide, però, di misurarsi con la dimensione orale, di comporre testi come se fossero per canzoni, parole da dire ad alta voce, quello che lei stessa definisce «a tutti gli effetti un esperimento», un esperimento che sfida le immagini «scontate» di tante canzonette per smontarle, riscriverle, dar loro una consistenza ‘poetica’. Superato lo sperdimento della prima lettura, che scorre come acqua, trovata la velocità (meglio: la lentezza) giusta di lettura, l’esperimento della Biagini sa coinvolgere il lettore, lasciandolo a volte stupefatto per la maestria con cui la poetessa fiorentina sa trasformare qualcosa che dovrebbe essere il piano rincorrersi di luoghi comuni, caratteristico di tanta melodia nostrana, in ben altro: nello sguardo spietato che scopre sconfitta e dolore, pur mascherandoli di un’apparente, musicale trasparenza: «invece torni in gola ogni mattina, / non c’è sindone di te nel mio lenzuolo, / non passi come febbre che s’asciuga, / ma sei tu, il più nero inchiostro che mi scrive».

Massimo Mori
Performer
Ed. Caffè delle Giubbe Rosse
pp.65, €.12,00

Giovanna Marmo
Fata morta
Ed. d’if
pp.33, €.5,00

Enzo Mansueto
Ultracorpi
Ed. d’if
pp.33, €.5,00

Elisa Biagini
Fiato
pp.33, €.5,00

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