L’imbarazzo della prosa ad alta voce

28 gennaio 2004 Letteratura e arti
L’imbarazzo della prosa ad alta voce

Non voglio qui riprendere il dibattito innescato da Maurizio Cucchi a proposito di poesia e canzonette. Ho già detto quel che pensavo sulle pagine de L’unità. Piuttosto mi accorgo che ai temi messi sul tappeto dal poeta milanese, ne sono in qualche modo connessi altri, che a me danno lo stesso imbarazzo che a Cucchi dà il confondere poesia e ’canzonette’. Per precisione , ad esempio, quello dei festival di letteratura (di letteratura, si badi e non di poesia) ’ad alta voce’. Tipo quelli di Roma, o di Mantova, o certe produzioni, come dire?- tra il teatrale e il ’prosastico’. Perché purtroppo non ci sono solo cantautori che si sentono poeti (alcuni a ragione, altri assolutamente a torto), ma anche prosatori ( e addirittura filosofi) che si credono cantautori, o ’front man’, o uomini di teatro, sic et simpliciter.
Insisto: non mi riferisco alla poesia. La poesia è sempre stata un’arte ’ad alta voce’, escluso il periodo, invero comparativamente assai breve, dell’epoca gutemberghiana. Mi riferisco alla prosa, al romanzo, che ad alta voce non lo sono stati mai, e che, qualora lo diventino, si trasformano immediatamente in altra cosa (Teatro? Performance? O che?).
Che un poeta legga ad alta voce è, non solo normale, ma addirittura augurabile. Che integri nella propria ritmica il suono, la musica, non è una novità, lo faceva già Publio Virgilio Marone. Fa parte delle tradizioni della ditta e, almeno in linea di principio, anche del bagaglio del mestiere. I poeti stanno ’sul palco’ - storicamente - prima dei cantautori e dei ’rapper’. E questo nonostante i festival di poesia in Italia siano a volte infestati da poeti che leggono i propri testi con la stessa abilità ed espressività di un catatonico, salvo poi affermare, un attimo dopo, che la vera poesia è un’altra, quella che sta sulla pagina. Le pecore nere ci sono dappertutto. Bisogna avere pazienza. No: io parlo dei romanzieri che intervengono a festival che fanno il pienone come le mostre di Palazzo Grassi, gente brava, comunque sempre molto famosa o ’notiziabile’, è questa la regola organizzativa, ma che poi con un palco non ha niente a che fare e che sa utilizzare la propria voce con la stessa maestria ed abilità con cui io so dipingere, o ballare. Cioè per niente.
Perché la voce, ovviamente, non è semplicemente un media, è una forma. L’interpretazione vocale è un’opera in sé ed a sè, in buona parte autonoma dal testo, è un’oratura, e a maggior ragione se questo testo non è nato per essere letto ad alta voce. Così, se decideremo di leggere testi nostri, o altrui, in pubblico, non ci basterà essere dei buoni letterati, degli ottimi romanzieri. Occorrerà che impariamo ad utilizzare nuove forme, nuovi media artistici. Che siamo capaci, letteralmente, di ’tradurre’ in voce ciò che prima era solo segno grafico con un suo senso compiuto ed autosufficiente. Altrimenti faremmo bene ad astenerci. Ricordate la novella del Boccaccio in cui Dante, sentendo un maniscalco che leggeva, storpiandone ritmica e parole, le sue terzine, se ne lamenta aspramente? Bene, l’Alighieri aveva tutte le ragioni per essere offeso: leggere male quelle terzine uccideva il anche il testo scritto che ne era a monte, danneggiandone il senso complessivo. Viene da chiedersi che senso abbia (tanto estetico-formale, quanto, più semplicemente dal punto di vista del ’consumo resposabile’) affannarsi per andare ad ascoltare un grande scrittore che ammiriamo, poniamo Don De Lillo, che legge con voce incerta, senza particolare abilità, in modo tutto sommato assolutamente referenziale, uno splendido brano di un suo romanzo (qualcosa, non dimentichiamolo, nato per essere segno muto, che sta sulla carta), mentre un pur validissimo musicista prova a tirar fuori dal pianoforte qualcosa che più o meno non stoni con quanto di mediocre fa il letterato con la sua voce e le sue parole ’dette’. O anche per quale ragione dovremmo restare colpiti dal valore artistico di un certo scrittore adorato da certa Sinistra che recita (ahimé, piuttosto male) brani di Lolita, mentre, al suono della musica, alcuni danzatori e attori si muovono attorno a lui e sul fondo della scena viene proiettata (colmo di arguzia video-sinestetica) una diapo che rappresenta le note musicali, o, tanto per concludere con gli esempi cogliendo dall’altro campo, quello musicale, delle ’canzonette’, cosa ci sia di tanto bello nella vocalità balbettante di un filosofo che si scopre cantautore e decide di fare band con un cantautore che si è sempre illuso di essere un filosofo.
Si volesse qui aprire una polemica, si potrebbe insinuare che tanti degli spettatori degli ormai numerosi festival di letteratura, vi si recano non tanto perché interessati alla letteratura (visto che mentre i mega-festival attraggono, come le mega-mostre e tutto quanto loro assomiglia, gli italiani continuano poi tranquillamente a leggere meno di pochissimo), quanto perché attratti dall’esperienza di poter vedere, dal vivo (è questa la parola magica: dal vivo!), questo o quel corpo in cui si incarna la celebrità e che per loro fino a quel momento è stato solo la virtualità di un’immagine televisiva o fotografica. Anche nel caso della povera, inoffensiva e laterale fama letteraria, proprio come alla passerella di Cannes o di Venezia, o a qualsiasi altro evento in cui la celebrità celebri se stessa. Ma in fondo, ad essere clementi, ciò che li muove - questi spettatori e groupies della prosa - è una necessità giusta, condivisibile: un bisogno di realtà. Cercando il quale torneranno poi a casa con nelle tasche un’ulteriore virtualità, com’è ovvio che sia.
Resta da domandarsi cosa, invece, spinga certi letterati e prosatori (e filosofi) a mettersi sul palco e a decidere di leggere male dei bei testi: convinzione ultranarcissica della artisticità del letterato in sé, corpo vivente in cui abita l’arte? Faciloneria? Tentativo di cavalcare l’onda, visto che i festival prosperano e intanto nel resto del mondo nomi di poeti ’ad alta voce’ come Ursula Drucker, Arnaldo Antunes, Linton Kwesi Johnson, Saul Williams, hanno ormai ottenuto una travolgente risonanza? O cos’altro?
Meno male che, nei casi migliori, come, per certi versi, a Mantova, accanto ai desolanti reading-spettacolo di questo o quel romanziere, ci sono anche dibattiti e momenti in cui questo contatto reale davvero c’è. Per il resto, si volesse rendere ancor più dura la polemica, verrebbe da parlare di Liale della letteratura ad alta voce, o di avanspettacolo della prosa. Altro che ’canzonette’…

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