La poesia italiana degli anni Duemila, dialogo con l’autore

Il fatto quotidiano online, ottobre, 2017 25 dicembre 2017 Letteratura e arti
La poesia italiana degli anni Duemila, dialogo con l’autore

Esce in questi giorni, presso Carocci, La poesia italiana degli anni Duemila – Un percorso di lettura, di Paolo Giovannetti, uno dei critici italiani più attenti alla contemporaneità. Ed è un libro che, credo, farà molto parlare e discutere, se non altro perché si assume il rischio, spesso volentieri evitato da altri, di tentare di fare il punto sul presente e dunque di sfidare la proverbiale "presbiopia" della critica letteraria.

Giovannetti, dunque, si assume un rischio non da poco tentando di analizzare una nebulosa così varia, dinamica, spesso contraddittoria com’è quella della poesia contemporanea. Ma non è solo questo a caratterizzarlo: lo è altrettanto la scelta (ugualmente rischiosa, se non di più) di inserire nella sua analisi anche aspetti della produzione contemporanea fortemente ellittici rispetto a ciò che normalmente siamo abituati a individuare come "poesia": dalla performance alle scritture "installative", dalla spoken music alla poesia "asemantica" e di "ricerca", senza per questo trascurare le produzioni più "tradizionali" di quella che usualmente definiamo come "lirica".
Si tratta dunque – infine, dopo anni d’inutili info-grafiche con le quali questo o quel quotidiano tentava di formulare un credibile portolano per i navigatori nei e dei versi – di una vera e propria cartografia che disegna con rilevante profondità e acutezza il profilo del presente della poesia.
Ovviamente, chi scrive non concorda su tutte le analisi e su ciascuna notazione, ma proprio perciò mi è sembrato interessante provare ad approfondire con lui una serie di questioni poste dal libro, provando a enucleare alcuni snodi più "caldi" di altri.

Caro Paolo, se hai deciso di intendere come appartenenti alla poesia esperienze così diverse tra loro come quelle che accogli nella tua scelta, deve esistere qualcosa di comune a tutte, che fa di tutte ‘poesia’. Mi sbaglio?

No, non ti sbagli. La mia è una fenomenologia dei poveri. Ho preso in considerazione molte delle cose che la gente, il senso comune, chiama poesia. Io ci vedo molte somiglianze di famiglia, come diceva quel tale. Non credo di doverle spiegare: conosco tante persone che si considerano poeti, anche se scrivono cose molto diverse fra loro. Mi ci sono buttato e ho fornito delle spiegazioni. C’è tanta teoria nel mio libro. Ma il primum era cercare di rendere conto di ciò che la gente chiama poesia, accettandone la pluralità. Che per me è una risorsa. Altri – più settari, ma anche più intelligenti di me – non saranno d’accordo. Evviva, che si discuta!

Dalla lettura del tuo testo sembra di poter evincere che per te non tutto ciò che è in versi sia poesia, peraltro, a metà dei Cinquanta, i Noigandres ebbero a sostenere che era ‘finita l’era del verso in poesia’. L’idea che una poesia sia un testo che va a capo secondo leggi particolari è, insomma, un’idea errata, o almeno piuttosto ingenua?

Con il verso, fino al Settecento si poteva scrivere di tutto, non solo la poesia come la intendiamo oggi. Anche le enciclopedie, i romanzi, il teatro, persino la storia, potevano presentarsi versificati. Con la nascita di quella che chiamiamo poesia moderna, poi, il verso è cambiato, e a un certo punto si è confuso con la prosa. Tanto è vero che da circa due secoli esiste la poesia in prosa. Infine, i poeti orali e i rapper mettono in crisi il verso perché lavorano sui ritmi, sul beat, che costituisce una ‘metrica’ un po’ diversa da quella che conoscevamo. E la poesia visiva, non dimentichiamo la poesia visiva, che esiste per lo meno dal medioevo...!

Nell’analisi che dedichi alla produzione contemporanea più tradizionale (la ‘lirica’) rilevi che quell’io potente, effusivo, protagonista dell’esperienza moderna, è piuttosto ‘indebolito’ nella produzione contemporanea. Per altro verso a me pare che le forme abbiano mantenuto una sostanziale omogeneità con quelle passate. Com’è spiegabile, se c’è, questa discrasia tra ‘epigonicità’ delle forme e dinamicità del soggetto poetante?

Tu ti riferisci, immagino, soprattutto alla lingua e alla metrica, alle strutture esterne delle poesie. E hai ragione, sono cambiate poco. Io però sono convinto che il Novecento abbia realizzato una specie di dispositivo ritmico, nato dalla fusione di un’istanza ‘leopardiana’ con istanze di altra natura (l’eredità, diciamo, simbolista). Questo dispositivo è straordinariamente duttile, disponibile agli opposti dello stile semplice e dell’espressionismo. Si incardina sull’endecasillabo, ma può praticare infiniti tipi di variazione. Perché resiste così tanto? Non sarà che la poesia ha anche il compito di ricordarci che la sua materia prima è, comunque, la lingua? E che le forme su di essa costruite sono molto più vischiose e resistenti al cambiamento storico rispetto a quanto accade in tutte le altre arti? .

La presenza, l’influenza di Sereni su gran parte della produzione lirica contemporanea viene ben evidenziata da te. Cosa rende questo poeta così capace di parlare alla contemporaneità persino più di Montale, Ungaretti, o Saba?

Sereni è maestro della reticenza, del vuoto di contenuti che si apre nella pagina, e che tu lettore devi riempire. E’ stato capace di raccontare in versi in un modo molto differente da ogni altro racconto poetico del passato, perché al centro della sua poesia c’è un trauma: una guerra, la seconda guerra mondiale, che per lui non è mai finita. Certo, il suo limite è di essere difficilissimo, mille volte più di ogni avanguardista, perché maneggia la tecnica come nessun altro, e rischia di divenire – appunto – un poeta per poeti, per intenditori.

Caro Paolo, tu rifletti a lungo anche sulla poesia di ‘ricerca’ e/o d’avanguardia, un tema dibattutissimo sino alla fine del secolo scorso. Data per scontata la fine della funzione normativa della Tradizione, che rende pleonastica, qualsiasi Avanguardia, non credi che sia possibile ritagliare uno spazio di ricerca in ciascuno degli ambiti poetici che tu individui, a patto che quella poesia si assuma il ‘rischio’ di sfuggire alla ripetizione meccanica del già fatto?

No, così giochiamo con le parole, e io preferisco la fenomenologia povera di cui ti parlavo nella prima parte di questa discussione. Quando diciamo “poesia di ricerca” ci riferiamo a esperienze odierne che si sentono ancora interne a una paradossale tradizione dell’avanguardia e della neoavanguardia, italiana ma anche francese e americana... I “ricercatori” – nota bene – sono dei grandi storicisti, e almeno un po’ vivono nel culto dei loro padri, anche perché hanno chiara l’idea di un oltrepassamento, di una rottura, di un confine da valicare. Questo non è un discorso che possa valere per altre tribù di poeti, che pensano e agiscono diversamente. In fondo, un ‘lirico’ può plasmarsi in modo meno agonistico, può accettarsi come ‘vecchio’, ‘desueto’ ecc. La grande lezione di Saba, vivaddio! Qui, non si ricerca, si trova! Semmai, bisognerebbe chiedersi se gli autori ‘di ricerca’ siano fuorusciti dal paradigma neoavanguardista. Secondo me, sì, in larga parte. La lingua, lo stile, oggi contano meno di un tempo. La poesia che si vuole di rottura si sta concettualizzando e si confronta con le arti visive; incide meno per quello che ‘fa’, con gli strumenti del linguaggio, che per quello che ‘rappresenta’, con la materialità delle proprie relazioni. Tende a diventare installazione, parola-cosa, da guardare prima che da leggere, e chiede uno spettatore o un visitatore, prima che un lettore.

Tu rilevi, riservandole un considerevole spazio nella tua analisi, la crescente importanza della poesia performativa, orale. Si tratta certamente di un’oralità ‘secondaria’, se non addirittura di terzo grado rispetto a quella delle origini. Si parte comunque da un testo scritto. Come tutto questo sta influenzando le forme metriche della poesia nella contemporaneità?

Da molti anni mi chiedo cosa stia diventando la vecchia sensibilità ritmica italiana sotto la pressione della canzone e del rap, ma adesso anche delle pratiche performative. Sta forse nascendo una specie di “neometrica” in cui la vetusta parola italiana, placidamente polisillabica, viene dissezionata da certi ritmi, da certi beat? È una cosa bellissima, divertentissima. I giovani ci stanno a proprio agio, e non è un caso se i rapper e slammer ‘immigrati’, di origine cioè non italiana, diventano sempre più frequenti. Fanno a pezzi l’italiano, e ne ringiovaniscono – almeno un po’ – la prosodia.

Quali dovrebbero essere le nuove competenze che la critica letteraria dovrebbe sviluppare per oggetti artistici pluriversi come questi, che non si limitano più all’aspetto testuale, alfabetico, ma coinvolgono integralmente il suono o la percezione iconica?

In questi casi io ragiono da parruccone. Studiate, studiamo, tutto quello che vi e ci serve! Cos’altro dire?

Il tuo testo, opportunamente, si concentra anche sulla ‘poesia in Rete’. Il fenomeno è largamente diffuso anche in Italia, non credi però che si tratti soprattutto di un utilizzo ‘strumentale’ del Web? Si mettono online i medesimi contenuti che sarebbero andati a stampa, a me paiono davvero poche le esperienze che cercano di sfruttare altre qualità della Rete, come per esempio l’interattività, l’ipertestualità, lo sviluppo di forme autoriali collettive. L’eredità di Toti e Balestrini è persa?

Secondo me, semplifichi... La poesia elettronica esiste ed è viva e vegeta. In Rete date un’occhiata qui e troverete qualche utile informazione. È un mondo a parte, lo so, separato dal senso comune ancora di più della poesia-poesia. Ma esiste e chiede di essere capito. Vedi mai che possa servirci da coscienza critica per le cose che ogni giorno facciamo con i computer in Rete, credendo che siano naturali. La poesia elettronica, forse, ci mette in contatto con la “grana”, la “ruvidezza” dei bit, con l’inconscio dei computer.
La Rete è ritenuta nemica della critica letteraria professionale: il rischio è quello di confondere il numero dei like con le reali qualità artistiche di un’opera. D’altra parte mai la poesia, o comunque qualcosa che si autonomini tale, era stata così diffusa e in Rete trovano spazio anche ottimi prodotti poetici e critici. Qual è il salto di paradigma che è richiesto a voi critici per affrontare la contemporaneità digitale?
Il salto di paradigma – e fai bene a usare questa espressione – è niente meno che la perdita d’aureola della critica. Dove troppi parlano, noi professionisti della critica dobbiamo accettare di confrontarci con il blablà infinito.
Laicamente, direi che dovremmo tirarcela un po’ meno e cercare di farci capire meglio. In teoria, dovremmo avere le idee più chiare perché – sempre in teoria – dovremmo aver studiato di più. E quindi, cerchiamo di imporre qualcosa come la chiarezza, pochi discorsi ma precisi, anche se – in ogni caso – problematici. Less is better...

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