La Talpa cieca

19 novembre 2003 Letteratura e arti
La Talpa cieca

Per carità mi rendo ben conto che con un nome così - La talpalibri - uno mica può pretendere lungimiranza, capacità di scorgere il nuovo, il diverso, quanto di davvero alternativo ai luoghi comuni dell’immaginario collettivo mediatizzato e celentanizzato sta avvenendo nella letteratura italiana. Ben più rassicuranti appaiono i nomi dei suoi colleghi-supplementi manifestanti, Visioni e Ultrasuoni… La talpalibri, per conto suo, fa il suo mestiere d’animale orbo, ben tollerata in una redazione cultura che, in mancanza d’altro e di fantasia propria, adora Celentano e da Baglioni si astiene (non sempre però) solo perché glielo ordina la Direzione. La dolce e tenera bestiola è diventata così la terra promessa di tutta la letteratura neo-mistica e ultra.-conservatrice d’Italia. Alla talpa, che, si sa, è animale sensibile, la poesia piace solo se commuove, se, come in tante liriche ’Aneddotiche’, il sole tramonta e neo-heideggerianamente inaugura un mondo nuovo di sussulti e fremiti, di rivelazioni divine e squaqueramenti epifanici, che certo ben ci consola (cos’altro chieder alla poesia, se non consolazione?) delle pensioni perdute e dell’aggressività globalizzante della Ragione economica e neo-razzista; la poesia che la talpa adora è quella che piace al prete mistico della neo-mistica cultura della parte più avanzata, intellettualmente parlando, nella sinistra italiana, quella che sa bene che Avanguardia e ricerca, sperimentazione e engage sono cose da non averci più rapporti, da non salutare nemmeno per strada, carcasse del passato da liquidare come la lotta di classe, o la Rivoluzione, parole fuori moda, concetti sorpassati e che fan fare solo brutta figura nei salotti e nei convegni. Qualche eccezione, certo, la Talpa deve pur farla, gauschisme oblige, ma con contezza, per carità, e con moderazione. Ormai spanne a destra del Corriere, la Talpa combatte cieca e coraggiosa la sua battaglia per dimostrare al mondo che conta dell’editoria italiana che ormai i comunisti, anche i poeti e i letterati comunisti, non sono più quelli di una volta, che si mangiano le Liale, ma che anzi sono diventati ragionevoli e integrabili, leggono Wilbur Smith e, se condannano Coelho o la Tamaro, sanno bene che Sepulveda invece è politically correct, e Vassalli il nostro Manzoni del futuro, per dimostrare a tutti che, se una volta esisteva una cosa che si chiamava ’cultura di sinistra’, rompipalle e ideologica, di lei ci siamo felicemente liberati, almeno in letteratura, una volta e per tutte, come del muro di Berlino. E Dario Fo, beata simplicitas del pavan? si lamenta che gli ’intellettuali’ italiani non sono più impegnati…

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