D’Annunzio, Marcuse e il revisionismo letterario di Pierluigi Battista

20 novembre 2003 Letteratura e arti
D’Annunzio, Marcuse e il revisionismo letterario di Pierluigi Battista

Leggo sulla Stampa un intervento di Pierluigi Battista a proposito di un testo di Claudia Salaris, autorevole studiosa di Futurismo, dedicato all’avventura dannunziana di Fiume, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume (ed. Mulino) e rabbrividisco. Sin dall’occhiello del pezzo, che recita: « Il Sessantotto è nato a Fiume».
Vorrei premettere che non ho ancora avuto il piacere di leggere il testo della Salaris, studiosa che per altro stimo e, quindi, in via preventiva, vorrei concedermi il lusso di credere che l’autrice non condivida alcune delle tesi avanzate da Battista. Soprattutto che non autorizzi la nonchalance con cui il recensore sovrappone e mescola il ribellismo anti-borghese (e piccolo-borghese) dei fiumani, che sarebbe ben presto sfociato in adesione alla dittatura fascista, e la rivolta del maggio del 68, o l’esperienza del Situazionismo, concludendone, con una soddisfatta strizzata d’occhio, che forse, se i giovani del 68 avessero conosciuto D’Annunzio, avrebbero potuto preferirlo a Marcuse. Il problema, infatti, non sta certo nell’appuntare l’attenzione su una serie di aspetti di ribellione artistica e culturale, o, nei casi peggiori, di ’goliardia letteraria’ che certamente trovarono spazio a Fiume, in momenti in cui - per altro - lo scandalo e la violazione della norma (letteraria, sociale e di costume) erano già da anni legittimati da una serie di esperienze delle cosiddette Avanguardie storiche (nonché da una Rivoluzione). Il Futurismo stesso - e Salaris lo sa meglio di chiunque altro - ben prima, mescolò inestricabilmente capacità di rinnovare l’arte e la letteratura e atteggiamenti ambigui e spesso francamente intollerabili di adesione al Regime e al nazionalismo guerrafondaio, che niente avevano a spartire con quanto, nel resto del mondo, le altre Avanguardie, che pure non potevano dirsi non debitrici al Futurismo marinettiano, andavano dicendo e praticando. Da qui a sostenere una qualsiasi parentela tra l’intellighenzia fiumana, quella che ci ha donato perle della comunicazione di massa come il «me ne frego», l’«eia eia alalà», l’«a noi!», o che lanciò l’amichevole moda della camicia nera e del fez, e Marcuse, o Pinot Gallizio , però, ci passa un oceano.
Se si tratta di interrogarsi sulla contraddizione che spesso ha unito capacità di innovazione formale e adesione a ideologie reazionarie, è un conto, se invece l’idea è quella di mescolare indifferentemente il 22 e il 68, D’Annunzio e Marcuse, allora non ci sto. Anche perché Battista dimentica, o fa finta di dimenticare, che nel 68 la prassi della rivolta segnò la fine delle ’rivoluzioni linguistiche’, e che invece, nel 22, la retorica ribellistico-letteraria sarà la spina dorsale dell’ideologia del Regime. Che Battista sia cortese, desista: abbiamo già fin troppo revisionismo storico per doverne sopportare anche la variabile storico-letteraria.

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