La questione della lingua.

L’Unità 2000 19 novembre 2003 Letteratura e arti
La questione della lingua.

Il Manifesto della Bella Lingua di Consolo, Manconi & Senatori-Co. ( basterebbe l’aggettivazione a dimostrarlo: cos’è una lingua ’bella’?) è segnale del clima profondamente restaurativo che si respira nella cultura italiana. La crociata contro il supposto imbarbarimento da basic english, in un mondo in cui l’inquinamento riguarda addirittura il codice genetico di pomodori, zucchine e alimenti tutti, non è altro che l’erudito mantello che ricopre l’impotenza di questi signori a dare conto dei mutamenti radicali del reale.
Per altro verso, la reattività dimostrata da molti intellettuali (sono già intervenuti direttamente, o interpellati, alcuni nomi di rilievo, da Nencioni a Sanguineti, da Vertone a Nove, ad Arbasino) non fa che confermare l’importanza del problema, che, d’altra parte, mi pare non sia altro che il fruttuoso, periodico riproporsi della ’questione della lingua’, mai interrotto e fondamentale tormentone della nostre patrie lettere, che, in assenza di Bibbie luterane in lingua nazionale e a causa di overdosi (mi si scusi il barbarismo!) bembiane, sono sempre state, ahimé assai ’lettere’ e molto poco ’patrie’. Ma dico cose già note. Meglio andare, dunque, al cuore del problema.
Certo, la lingua cambia, si evolve, si mescola con altre lingue e non credo che questo significhi imbarbarimento, ma, fosse pure così, come sostengono i nostri Neo-Cruscanti, a cosa servirebbe un letterato chiuso nella torre d’avorio d’una lingua ricca e perfetta, ma che nessuno più parla e che pochissimi comprendono? E che senso ha chiedere, a fronte della globalizzazione, che è inevitabilmente anche globalizzazione linguistica, la resistenza della diversità (la lingua italiana) per poi farne un monoblocco neo-petrarchesco che strilla scandalizzato a ogni innesto foresto? Povero Algarotti, chissà cosa ne avrebbe pensato lui… E i dialetti e le lingue locali, poi? Il manifesto non mi pare che ne parli, ma la gente sì che continua a parlarli, sia pure sotto forma di inquietanti ibridi anglo-domestico-televisivo-vernacoli. Che si fa? Aboliamo la Tv e il basic english, o immaginiamo una utopia-lingua capace di interpretare il mutamento e trasformarlo in nuova ricchezza? Credo, comunque, che, prima di decidere, fa-remmo bene a ricordare che ciò che non fu capace di fare il Gran Lombardo, né col suo romanzo, né col suo programma di politica linguistica, all’indomani dell’Unità d’Italia, lo ha fatto la Tv, e non solo col maestro Manzi. Se oggi l’Italia può contare realmente su quella che Gramsci avrebbe definito una lingua nazional-popolare, che ci piaccia o no, lo deve anche all’immondo aggeggio catodico, tanto quanto gli deve miliardi di strafalcioni e corbellerie sintattico-grammaticali, che poi influenzano certo tutti noi, ma proprio tutti, visto che l’anacoluto, tanto per usare un eufemismo, non è certo assente negli Atti parlamentari, né nelle prolusioni di tanti nostri eminenti politici. Non a caso, un intellettuale e profondo conoscitore della lingua come Nencioni, l’unico vero Cruscante di tutta questa storia, frena e invita alla prudenza, ricordando che lingue pure non ne esistono e che la stessa funzione svolta oggi dal ’pidgin english’ fu svolta, ai tempi, dall’adoratissimo latino. In fondo le lingue romanze sono nate dalla mescolanza di lingue locali e di quello che potremmo forse chiamare con qualche ragione il ’basic latino’. Ha ragione Nencioni, il "purismo è una preoccupazione tipicamente italiana".
L’impoverimento, da un certo punto di vista, è poi certamente reale, ma come combatterlo? Accettando la sfida della realtà, o ricoprendosi il capo e la lingua di pur accademicissima Crusca? Perché, invece di recriminare su link, fax e cliccare, questi in-tellettuali non si impegnano affinché la scuola italiana sia capace di stabilire un rap-porto reale e proficuo tra gli studenti, i poeti e i letterati? Chissà che dall’incontro tra chi, per statuto, deve tenere ’in esercizio la lingua’ e chi questa lingua deve impararla, ma pur la ricrea, giorno per giorno, plasmandola, magari goffamente, alle proprie inedite esigenze non possa venirne davvero qualcosa di buono.
Che poi un cantautore intelligente come De Gregori, decida di firmare una roba del genere è stupefacente. Povero Francesco, tra Letterati Laureati e Accademici vari, rischia di farci la figura di Renzo alla fine dei ’Promessi Sposi’, invitato, sì, a cena nel castello di Don Rodrigo dal nipote pentito dell’antico nemico, ma poi lasciato a desinare in cucina, con la sua Lucia… Ma forse anch’egli, come Violante, in un sussulto di neo-imperialismo linguistico italofono, si duole che non sia stato l’italiano l’idioma che ha colonizzato e ucciso le lingue dei nativi sud-americani…

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