L’Elettrica solitudine di Voce- di Aldo Nove

Liberazione, settembre 2006 12 settembre 2006 Il Cristo Elettrico
<i>L’Elettrica solitudine di Voce</i>- di  Aldo Nove

Il Cristo elettrico di Lello Voce è il libro che sigilla il ricordo di una generazione fiorita negli anni Ottanta e in quegli anni dispersa, magistralmente raccontata da uno dei più grandi poeti italiani. E’ un romanzo aspro, refrattario a ogni possibile forma di occhieggiamento a un pubblico che non si dà a priori, dando così espressione (a partire dall’introduzione, scritta su calco manzoniano, rivolta ai 25 lettori a cui ironicamente parlava il grande Lombardo) a un pessimismo che sfiora l’autoreferenzialità per mera conseguenza storica: quella di un isolamento assoluto dell’individuo di fronte all’avvenuto crollo di ogni illusione di collettività fattiva.

L’Enrico, il protagonista, si trova in carcere per avere ucciso una donna. Ma quell’omicidio cela altro. Svela un amore impossibile. Impossibile non certo nella peculiarità della vicenda ma come emblema di uno status sociale (quello del tossico dopo le ideologie) che è come negato, cancellato dal nuovo ordine. Un fantasma che non a caso ha come interlocutore principale uno scarafaggio (in una sorta di straziante ma anche sarcastico rovesciamento kafkiano: lo scarafaggio è l’altro, e l’altro umano) e inconsapevolmente, quanto rabbiosamente, riflette l’ordine di valori a cui vorrebbe sottrarsi: un immenso narcisismo, anche se “negativo”. Quasi una televisionizzazione ante litteram della scimmia di William Burroughs, nei meandri di un sub-mondo che svanisce progressivamente prendendo allo stesso tempo forma, pagina dopo pagina, nel Cristo elettrico (No Reply, pag.224, euro 14,00).

Se Marco Philopat, con Costretti a sanguinare (recentemente riproposto da Einaudi) ci ha fatto rivivere il passaggio dal decennio dei Settanta agli Ottanta con gli ultimi rigurgiti di un orgoglio generazionale antagonista, con Voce “regrediamo” a qualche anno più tardi, dove non è rimasto più nulla. Se non i diversi ego. Quelli insufflati di ormoni delle palestre, come quelli, residuali e narrati in questo romanzo, di chi ha scelto (o si è fatto scegliere da) l’eroina, la “bianca-buona”, feticcio di una fuga lisergica verso paradisi esauriti da anni. L’Enrico (con l’articolo, come usa Voce) è un antieroe, e pure antipatico. Come nei neoproletari di Ken Loach non è mai il carattere dell’individuo a ispirare l’identificazione (anzi, spesso si crea il processo opposto), ma la condizione esistenziale. Quella di un’infinita solitudine. Ma senza nessun autocompiacimento nichilista: piuttosto, una sorta di tronfio donchisciottismo di questo “tossico letterato” (splendida e attuale metafora dell’intellettuale oggi, bizzarra merce umana in esubero, incollocabile e oscena) che scrive alla madre lettere dalle sue prigioni prive in tutto di qualunque possibilità di dialogo effettivo. L’Enrico è solo e fino in fondo vuole esserlo. La madre, l’interlocutore, è un po’ come il lettore, non può comprendere, troppo colma la distanza tra il tempo attuale e le caratteristiche del tempo della narrazione e il mittente (affettivo, editoriale).

La scrittura - caustica, abrasiva, ricca di contaminazioni mai gratuite ma perfettamente controllate a esprimere la vivacità di un linguaggio che mischia mitologie a idioletti - preannuncia, nei tipi sociali ma anche nei primi effetti di un’immigrazione che nel mondo carcerario ha sempre avuto un triste quanto efficace laboratorio, il miscuglio di idiomi dei luoghi dell’attuale marginalità sociale, agli antipodi dell’agente normalizzatore televisivo (quello sapientemente, tristemente descritto, ultimamente, dal Siti di Troppi paradisi). E’ anche un libro di azione, Il Cristo elettrico, e sa far ridere fino alle lacrime che diventano lacrime di sconforto. Il tossico ex rivoluzionario asservito al mercato della “merda” (l’eroina, rovesciata per fenomeno retorico ma ancor prima psicoanalitico dal sublime all’infimo assoluto) agisce come un burattino violento per necessità e per necessità vende corpo, valori e affetti. Fino a quando, in un allucinatorio momento di vittoria (di pace, di normalità), proprio quando tutto sembra andare bene, arriva la catastrofe finale. E il motore del romanzo è ormai avviato, inarrestabile.

(pubblicato su Liberazione, 9/9/06)

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