Quello con la felpa grigia

in "Per sempre ragazzo", Tropea ed., 2011 18 luglio 2011 Racconti brevi
Quello con la felpa grigia

Sono nato il 29 febbraio. Il 20 luglio avevo una felpa, grigia.
Sono io: il ragazzo con la felpa grigia.
Sì: sono quello che scappa ad Alimonda, mentre la pistola lo punta, sono quello che scampa, quello che porta la pelle a casa e neanche si volta indietro a guardare cos’è accaduto all’altro, a quello smilzo, con il passamontagna blu e la canottiera bianca.
Sono in tutte le foto di Alimonda. Ma me non mi ha mai cercato nessuno. Perché io scappavo e scappavo perché uno che è nato il 29 di febbraio, se la scampa, la scampa perché scappa.
Uno nato il 29 febbraio è nato sfigato. E’ uno sempre fuoriposto, che per tre anni su quattro occupa il compleanno altrui: il 28 febbraio, o il primo di marzo. Uno invadente, anche se si ostina a farsi sempre i cazzi suoi.

D’altra parte io nemmeno ci volevo andare giù in città, lo sapevo che poi finiva male.
Però… però mi faceva girare troppo i coglioni che m’avessero chiuso quella stanza del cazzo da fuorisede, che avevo in affitto in centro, vicino a De Ferrari, dietro un tripudio di cancelli e cavalli di frisia. Sembrava di stare a Dachau.
E poi, appena mi svegliavo, me li vedevo davanti i due militari appollaiati sul balcone di fronte, con i fucili di precisione appoggiati sulle gambe. I tiratori scelti. Quelli in casa io me li ero scampati, ma era toccato alla signora di fronte, che gli preparava pure il caffè e glielo portava con un sorriso un po’ complice e spaventato, mattina e sera.
I suoi ragazzi, così li chiamava con le vicine.
A me facevano orrore. E allora, appena sveglio, schizzavo via dal letto e scappavo da Dachau. Così mercoledì. Così giovedì. Ed anche venerdì.
Anche se sapevo che giù in città ci sarebbe stato casino, che tanto lo dicevano tutti, era da giorni che non si sentiva parlare d’altro: dell’arrivo dei Black Blok, dei palloncini pieni di sangue infetto che avrebbero lanciato sulle teste degli sbirri, per passar loro l’AIDS ,degli aeromodelli radiocomandati con mini bombe, di come i No-global avrebbero violato la Zona Rossa.
E degli allenamenti che da mesi facevano gli sbirri, dei nuovi manganelli Tonfa, delle tonnellate di C4 già pronte all’uso, della Zona Rossa da difendere a ogni costo, delle sacche per cadaveri ordinate a stock di centinaia, dei container sparsi per la città, come fossero muraglioni, delle tante celle pronte a Bolzaneto per gettarci dentro tutti i fottuti Black Blok acchiappati.
Che sarebbe stato peggio: peggio della Svezia, peggio di Marsiglia, di Praga, peggio di Napoli. Peggio di tutto.

Io l’avevo già visto prima, quello con la canottiera bianca: piccolo, smilzo, con l’aria smagata. L’avevo visto in rosticceria che si mangiava una farinata, quando già il casino era cominciato, più giù, a Corso Torino.
Che aveva l’aria più che altro di uno che volesse andare al mare, con il caldo che faceva.
Ma che poi aveva cambiato opinione. Uno come me, che della politica, sì, ma insomma…
Ma che poi s’era detto: – e che cazzo, questa è la mia città e loro non possono venire qua e farci quello che vogliono, cancellate, container, blindati, C4, idranti, elicotteri, tanti elicotteri, troppi elicotteri, che poi dopo, per sei mesi, io mi sono svegliato con la tosse e il rumore dei rotori nelle orecchie. Ogni mattina. Come un incubo travestito da ronzio…
E l’avevo rivisto dopo, incazzato nero, con un bastone in mano, raccolto chissà dove, con il passamontagna, davanti a tutti, che urlava a quelli delle Finanza di piantarla di picchiare, o di farsi avanti invece, che li aspettava. E poi di nuovo, che facevamo la fila alla stessa fontana, col C4 che ci usciva dalle orbite, vicino Tolemaide, e poi ancora, che trascinava un cassonetto per far barricate.
Che roba lo smilzo, smilzo com’era, con il suo rotolo di scotch infilato sul braccio!
Ci eravamo sorrisi: continuavamo ad incrociarci.

Ricordo tutto di quel giorno di merda.
Ma non immagini. Ricordo suoni. Quello delle sirene, dei manganelli battuti sugli scudi, degli anfibi in marcia serrata, il rumore delle pietre a gragnuola, la tosse, le urla, gli spari, tanti spari, gli schianti dei vetri infranti delle vetrine, il cigolio delle serrande divelte, le risate, i pianti, i cori a notte, quando, steso su un parapetto della via che dà sulla Fiera, sentivo i canti degli sbirri, giù, che festeggiavano il morto. Faccetta nera, bell’abissina… Un, due, tre, viva viva Pinochet! Solo di Alimonda ricordo ciò che ho visto. Chissà perché…
Forse perché tutti stavano a guardare. Tutti, anche gli sbirri lì intorno, immobili, come se la cosa non li riguardasse affatto, mentre quella jeep stava dove non doveva stare e non si muoveva.
E ancora non capisco perché. Stava ferma, a motore spento. Mentre la gente esasperata tirava pietre e urlava e correva.

Io lo so cos’è successo, ma che lo dico a fare? Non mi crederebbe nessuno e passerei dei guai. Sono nato il 29 di febbraio, io…
Lui, lo sbirro nella jeep, quello che urlava: - vi ammazzo tutti ! aveva puntato me. Gli era appena arrivato quel maledetto estintore sulla gamba che sporgeva dal Defender e lui urlava e cercava qualcosa da mirare con la canna della sua pistola. E aveva trovato me, me che cercavo di svignarmela da tutto quel casino. E mi seguiva con la calibro 9 spianata, mentre correvo un po’ chinato, dalla sua destra alla sua sinistra, e aspettavo il botto che mi avrebbe fermato.
Invece è arrivato lui, quello con la canottiera bianca e, mentre io correvo, mentre un altro di noi infilava una trave in un finestrino laterale della jeep, ha raccolto l’estintore e ha provato a impedire allo sbirro di fulminarmi il cranio.
Ma è stato lento, troppo lento: quell’altro l’ha visto e ha sparato.
Poi ha sparato di nuovo, sempre con la pistola dritta davanti a sé, parallela al suolo, come uno di quegli agenti segreti dei film, mentre lo smilzo era a terra, mentre l’estintore rotolava, mentre il sangue del ragazzo sembrava una fontana che sgorgava dallo zigomo coperto dal passamontagna.
E’ stato allora che la jeep, come per incanto, s’è rimessa in moto, ci è passata sopra due volte alla canottiera bianca ed è fuggita via.

Avrei dovuto fermarmi e invece sono fuggito anch’io.
Perché io sono nato il 29 febbraio. Ed anche lui, probabilmente, pensavo, mentre risalivo di corsa Tolemaide, con il fiato mozzo, anche lui bisesto, per essergli andata così di merda…
Dopo ho scoperto che no: lui era nato il 14 marzo del ’78.
Niente sfiga bisestile. Carlo l’avevano proprio ammazzato. L’avevano ammazzato e basta.


In Per sempre ragazzo, a cura di Paola Staccioli, Tropea editore, 2011

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