Perché un poeta scrive un romanzo - Un’autointervista

booksblog.it 11 novembre 2006 Il Cristo Elettrico
Perché un poeta scrive un romanzo - Un’autointervista

Gli amici di booksblog mi hanno chiesto di autonitervistarmi a proposito del Critso elettrico. Ho trovato la proposta stimolante. Quello che segue è quanto ne è venuto fuori.

Questo tuo ultimo romanzo non è altro che la ripubblicazione dei precedenti due, Eroina e Cucarachas, che narravano in sequenza la stessa storia, quella di Enrico, prima tossico e poi, in Cucarachas, galeotto imprigionato per aver, almeno apparentemente, ucciso la sua ganza, Maria. Tu rimonti i due testi facendo in modo che ad ogni capitolo di Eroina ne segua uno di Cucarachas. I capitoli di Cucarachas, però, vanno all’incontrario, dal primo all’ultimo. Arrivati alla fine, dunque, sembra che tu chieda al lettore di ricominciare daccapo: un circolo vizioso. Come è possibile spacciare una roba simile come il terzo volume di una trilogia?

Ti rispondo citando alcuni passi dell’Introduzione, un po’ manzoniana, che ho scritto apposta per domande prevedibili come questa: «questo scartafaccio che avete improvvidamente tra le mani è il volume falsamente terzo della mia zoppicante trilogia romanzesca, iniziata con Eroina e proseguita con Cucarachas. Se dico che è ‘falsamente terzo’ intendo significare che esso altro non è che il risultato dell’intreccio, in modo come vedrete un po’ bislacco, dei primi due romanzi. Va detto, a mia giustificazione almeno parziale, che sin dall’inizio tutto era stato progettato proprio così: due romanzi apparentemente successivi e consecutivi, che in realtà erano il medesimo, smembrato e separato nelle sue componenti essenziali. Ora è giunto il momento che l’essere mostruoso e ircocervico si ricomponga e che la falsa trilogia si completi, un po’ come il pistolero ‘doppio’ ne El Topo di Jodorowsky: un solo essere, fatto da un monco e da uno zoppo. E’ tempo che si comprenda (o almeno, più modestamente, che io provi a spiegare) come l’oggetto principale di tutto sia stato il tempo e il suo apparente fluire, insomma l’essenziale di qualsiasi romanzo che si rispetti. Non si tratta dunque di una trilogia di romanzi (che invero sono solo due, anzi uno) quanto di una trilogia cronologica, o, se preferite, ‘archeologica’, di un’azione che è durata nel tempo, ha progredito, è mutata, fino ad essere ciò che è oggi. Che è ciò che doveva essere sin dall’inizio, anche se allora non avrei saputo assolutamente dire cosa sarebbe stata». Insomma l’idea era un po’ quella di trasformare il romanzo in una performance muta, forzandolo ad essere ciò che non è e non dovrebbe mai essere.

Perché un poeta decide di scrivere un romanzo?

La poesia, almeno quella che pratico io, ad alta voce, è un’arte del tempo, della parola nel tempo. Essa ha una durata, il tempo è una sua precisa ‘forma’. Insomma, a mio parere, fare poesia è fare esperienza del tempo, sia di quello ritmico, che di quello del respiro, biologico. Il romanzo non ha nulla a che fare con tutto ciò, esso è integralmente, ab imo, un’opera scritta, silenziosa. Hai voglia a fare Festival del romanzo, o letture fiume ad alta voce: la dimensione vera del romanzo, che è invenzione borghese, è quella individuale del silenzio. Non c’è nulla di più simile ad un telespettatore che un lettore di romanzi. Il pubblico del romanzo, come quello della TV, semplicemente non esiste, esistono i suoi lettori (o telespettatori), centinaia di individualità separate, centinaia di contesti diversi, ma singolarissimi. Ciò che fa del cinema un’arte differente dalla produzione televisiva non è la dimensione dello schermo su cui scorrono le immagini, ma il fatto che una nasca per una fruizione privata, l’altro per una pubblica. Eppure anche il romanzo ha a che fare con il tempo: se la poesia è la sua pratica, il romanzo è la sua ‘teoria’: il romanzo narra il tempo, prima ancora che gli avvenimenti che accadono al suo interno, e il primo problema che esso si pone, se è un romanzo e non una storiella gonfiata, è quello del tempo e della sua narrazione. Ecco perché ho deciso di scrivere un romanzo, per fare un po’ di teoria del tempo, o meglio, dell’esperienza che noi abbiamo di quel fenomeno abbastanza oscuro che chiamiamo tempo.

Con quali conseguenze?

La maggior parte dei romanzi contemporanei sceglie di narrare gli avvenimenti come se essi fossero appoggiati su una sorta di tapis roulant che è il loro svolgersi temporale, come se la nostra percezione degli avvenimenti fosse dovuta a una catena causa-effetto per la quale post hoc, ergo propter hoc, ciò che viene dopo, cioè, ci appare effetto di ciò che lo precede. La maggior parte dei romanzi contemporanei pare aver accettato strutturalmente come valido il modello di romanzo realista-ottocentesco. Si narrano storie che hanno un inizio e una fine, si riduce la complessità del reale all’interno della piatta trasparenza di un discorso concluso, o, se vuoi, di un récit. Come se Svevo, Joyce, Musil, Pirandello, Kafka, lo stesso Proust, non fossero mai esistiti. Ma è davvero possibile raccontare una storia, intesa in questo senso? C’è una serie di appunti di Gadda che riguardano un suo racconto, l’Incendio di via Keplero, che riflettono intorno a un problema almeno apparentemente irresolubile, ma che è esattamente il problema principale di chi voglia narrare la contemporaneità, come si usa dire, globalizzata e interconnessa: come fa uno scrittore a raccontare la ‘simultaneità’? L’incendio scoppia simultaneamente in tanti appartamenti e tutto è degno di essere narrato. Certo, si può decidere di raccontare le singole storie separatamente, o di costruire un racconto infarcito di ‘mentre’ e ‘nel frattempo’. Ciò non toglie che ci troviamo di fronte ad una truffa. La scrittura va da destra a sinistra, non anche dall’alto in basso. E allora? Ciò che stiamo raccontando è la realtà, o stiamo facendo solo un discorso di secondo grado, un racconto di un racconto? Abbiamo catturato la storia, o stiamo semplicemente contando storie? Non credo che il tempo, o quella roba che chiamiamo così, funzioni in questo modo. Io ne ho piuttosto la percezione come di un gorgo. Non credo che passi il tempo, penso piuttosto che passiamo noi, che ci allontaniamo, o ci avviciniamo, man mano, dal/al cuore dell’esperienza, da quel brandello virtualizzato di sensazioni scollegate che continuiamo a chiamare esperienza. E’ quello che ho provato a narrare, costruendo un insieme di due romanzi che, pur essendo una sola storia, intesa nel senso classico, andassero verso due direzioni opposte, uno verso il futuro, l’altro verso il passato, li ho fatti incrociare, collidere e sono rimasto a guardare le scintille.

La faccenda mi pare poco interessante. Oggi, piuttosto, si fa un gran discutere sui ‘generi’, il tuo che genere di romanzo è: fantascienza, giallo, noir, fantapolitica, è ideologicamente impegnato?

La discussione sui ‘generi’ mi interessa poco. Il romanzo stesso è un ‘genere, non è tutta la letteratura, solo una sua parte. E’ anzi tra i generi più giovani. Poi certo ci sono svariati ‘sottogeneri’. Il giallo, il noir, la fantascienza, il romanzo d’avventura, quello di formazione, ecc. Che sono romanzi, infine. Ma la discussione sui generi mi interessa poco anche perché essa è forzatamente limitata ai ‘temi’ e ai ‘canoni’, più che alle strutture della narrazione: ciò che distingue un giallo da un romanzo di formazione è il tema, se vuoi, lo sfondo, certe tecniche di narrazione. Poi si può scrivere un giallo ‘rivoluzionario’ come la Cognizione del dolore di Gadda, o un pessimo romanzo di formazione, vieto, scontato. Ma ciò dipende dalle capacità dell’autore di affrontare, mutare, plasmare le strutture della narrazione, non dal ‘genere’ o ‘, meglio, ‘sottogenere’ prescelto. A volte mi pare che l’Italia sia tornata ai tempi di Metello: la novità che colpisce è sempre quella tematica, mai quella formale. Oggi poi, con certe politiche editoriali, la faccenda ha raggiunto livelli scandalosi: è buffo vedere le polemiche tra certi scrittori di destra e di sinistra, visto che, alla fin fine, quello che entrambi praticano è il medesimo tipo romanzesco, sostanzialmente quello teorizzato da Huet nell’Ottocento. Il problema è, però, che se l’inganno c’è, se c’è una maschera che copre la realtà, ciò non dipende dal punto di vista ideologico dell’autore, ma dalla forma che egli sceglie per narrare le proprie storie. La critica dell’ideologia borghese portata avanti da uno schietto reazionario come Gadda è molto più efficace e decisiva di quella di Pratolini, il cui cuore batteva a sinistra. La scelta in arte è sempre, prima di tutto, formale, anche se è una scelta politica. Il Capriccio di Sanguineti resta fondamentale per questo, e così il suo Satirycon travestito. E invece sembra che tanti miei contemporanei abbiano messo a cuor leggero una toppa a quello squarcio nel cielo di carta del teatrino delle marionette di cui narra il sig. Paleari a Pascal-Meis, quello che, facendo irrompere sul palcoscenico il dubbio radicale dell’ambivalenza, separa l’arte moderna dal passato e impedisce che l’evento, l’azione si compia, almeno così come noi ci aspettiamo che dovrebbe fare. E’ come se Svevo non avesse mai scritto la Coscienza. Tutti la ammiriamo, la studiamo a scuola, ma poi continuiamo a scrivere esattamente come se la Coscienza non esistesse. Non è un caso che il dibattito della società letteraria italiana ignori le teorizzazioni di autori importanti come Pierre Zima, che affrontano proprio questo tipo di problematiche legate alle conseguenze dell’ambivalenza sulle strutture portanti della narrazione romanzesca, o che autori come Bolaño siano sottostimati, o che di Vargas Llosa non si colga la novità, per esempio in Pantaleon e le visitatrici, della gestione dei dialoghi con l’abolizione dei menzogneri ‘lui disse’, ‘ella rispose’, insomma dei verba loquenda, sostituiti da verbi d’azione. Negli anni 90, ai tempi di Ricercare a Reggio Emilia, la faccenda principale, che assillava tutti i critici, era che i romanzieri italiani non sapessero scrivere ‘belle storie’, al contrario degli americani. Come se fosse un difetto. Ma ecco che arrivano dei giovani che hanno storie nuove da raccontare…. Anche il meglio del fenomeno pulp è stato letto così, mentre era molto di più. Il risultato è che abbiamo avuto un’invasione di Liale pulp, e non solo pulp. E’ stata una faccenda abbastanza ridicola, a ripensarci oggi. Mentre certi figuri dichiaravano, con l’accompagnamento delle fanfare, che la menzogna che la Storia era finita, ecco che noi riscoprivamo, per risarcirci, le storie, quelle dei romanzi, qualcosa che potesse consolarci. Ci raccontino pure di sangue e visceri, o di che volete voi, ma che lo facciano rimettendo ordine tra passato, presente e futuro. Ci ridiano la storia, sia pure sotto forma di storiella sanguinaria. Vale lo stesso per le discussioni odierne: che sia fantascienza, o giallo, noir, o fantapolitica, ciò che mi interessa non è il genere, ma la capacità dell’autore di fare arte del romanzo. Cioè di metter in crisi le convenzioni principali del ‘discorso’ del potere: di minare il linguaggio che parla il discorso del potere. Se non ci libereremo del linguaggio del potere, delle sue parole, del suo modo di raccontare il mondo, come potremo immaginare un nuovo mondo, un nuovo futuro?

Hai scelto una lingua ‘difficile’, lavorata, che non fa sconti al lettore, ma che richiede tutta la sua attenzione. Mi pare un’operazione un po’ spocchiosa e prepotente, che pretendi?

Non penso che il romanzo sia semplicemente raccontare una storia, né penso che questa sia una sua peculiarità. La prima a narrare è stata la poesia, i poeti sono stati i primi a contar storie. Un romanzo è molto di più: è la narrazione del tempo, come dicevo prima, la concezione dei ‘personaggi’, la gestione delle voci, le azioni e le loro relazioni, le focali e, ovviamente, come qualsiasi prodotto letterario, è anche la sua lingua. Non credo che la scelta di usare lingue sempre più semplificate, trasparenti, sia produttiva. Penso che la nostra lingua stia divenendo sempre più povera e che compito di noi autori sia quello di tenerla in allenamento, di forzarla, di costringerla a riacquistare la ricchezza perduta. Anche perché, come direbbe il buon Carlo Emilio, barocco è il mondo, non il Gadda. La stessa storia sono due storie diverse, una per ciascuna delle scelte linguistiche che eventualmente la narrano. Io credo che la lingua sia una roba viva e che fa attrito, che sporca e fa dolore, che ha odore, non credo che sia possibile descrivere il mondo, piuttosto è possibile parlarlo, ma questo significa fare appello a tutte le ricchezze di una lingua, prima di tutto alla sua capacità di ‘invenzione’, sia sintattica che lessematica. Certo il lettore ci deve mettere del suo, deve dare attenzione, pensare, insomma deve fare il lettore e non lo scanner: è un po’ faticoso ma dà le sue soddisfazioni.

Ti rendi conto che ciò che hai scritto, magari per le ragioni che hai esposto, ha un sapore assolutamente inattuale, una roba che, a primo sguardo, sembra un vecchio arnese avanguardistico, anche un po’ indigesto e demodé?

Sì, direi che sono piuttosto fiero di aver scritto quello che secondo i canoni del mainstream è un brutto romanzo, cioè un romanzo poco vendibile. Che vuoi farci, ho ricominciato, si parva licet, da Svevo, Gadda e Pirandello, che erano noti proprio perché scrivevano ‘male’. Ho ricominciato da tre.

Che effetto ti ha fatto auto-intervistarti?

Quello di una truffa, ma utilissima, almeno a me: così ho potuto infine dire le cose che a nessuno mai verrebbe in mente di chiedermi, e non è poco. Che non è una garanzia che poi queste cose interessino il lettore, ma un’autointervista una la fa, prima di tutto, per sé.

Pensi che questa intervista ti farà vendere più copie?

Affatto, il contrario, piuttosto, ed infatti non sono ben certo di aver fatto la cosa giusta ad accettare, dopo che il mio editore si è dato un gran da fare a travestire il mio romanzaccio da ‘giallo/noir’, che oggi va così di moda. Ma ormai è fatta. Tanto è scaricabile in copyleft gratis dal mio sito. E’ la scelta che consiglio: mai comprare robe sperimentali, non si sa cosa aspettarsi, sono merci altamente inaffidabili.

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