La creazione delle ceneri (Predica per il giorno che sarà dispari)

Napoli Teatro Festival Italia - Marsilio ed. - 2008 28 dicembre 2009 Testi Teatrali
La creazione delle ceneri (Predica per il giorno che sarà dispari)

[FINALMENTE DISPONIBILE L’AUDIO DA RADIO 3 SUITE. FILE MP3]

L’universo si controbilancia. (U. Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis)

Tutto è cominciato con un suono, non con la luce. La luce è venuta dopo. Dopo quel suono. Che non era parola, ma voce soltanto. Era un sibilo. Uno schiocco. Materia d’aria e acqua.
Un suono, non una luce. La luce è venuta dopo, dopo che il primo timpano ha vibrato nel buio, in assenza di senso.
All’inizio il suono era uno solo. Un sibiloschiocco unico. Non c’era disordine e non c’era luce.
Solo un unico suono, pulsante e immobile, sospeso all’orizzonte del respiro. Poi la catastrofe è avvenuta. Quando quel suono, che si divideva restando unito, ha messo piede nel dispari, quando da linea si è fatto superficie, allora quel suono si è spaiato. Si è separato, si è spezzato, sbrindellato, frantumato, polverizzato in migliaia, in milioni, in miliardi di sibili e schiocchi, uno differente dall’altro, brulicanti, che erano dappertutto, si infilavano nei Corpi ancora immobili, penetravano nel naso, negli occhi, nelle bocche, negli orifizi.
Ma non nelle orecchie. Non risuonavano, quei suoni. Quei sibili e quegli schiocchi, uno diverso dall’altro, si autogeneravano e non risuonavano. Si impossessavano.
Poi si sono sollevati tutti, sino all’altezza del diapason, e tutte le lingue di tutti i Corpi hanno iniziato a muoversi, a tremare, a sibilare, a schioccare. Tutte. Una diversa dall’altra.
E poi, dopo millenni di suoni che circondavano il buio, una prima lingua ha pronunciato, ha articolato, è divenuta padrona assoluta di se stessa, è sfuggita a quel timbro iniziale e a tutti i suoi toni, e quella parola senza senso, quella parola tutto suono, trascinata dalle molecole d’aria vibrante è corsa da una lingua all’altra e le ha infettate, una per una, e tutte allora hanno parlato, ma ognuna parlava a se stessa, ognuna parlava la sua unica quasiparola e i suoni erano solo suoni senza senso, né radici, e il rumore è stato grande, tanto grande, tanto immenso, che il cielo e la terra ne hanno tremato. E da questo tremore sonoro, da questa sobbalzante elettricità sismica, sono scoccate scintille e le fluorescenze hanno invaso l’orizzonte, l’hanno abbagliato, e la luce, la luce è stata dappertutto e ha accecato le lingue, le ha bruciate e le ha costrette a tacere. Perché è la luce che ha creato il silenzio. Allora i Corpi si sono alzati e hanno provato a parlare, ma le loro lingue erano arse, le loro gole erano strozzate. E siccome non potevano parlarsi, i Corpi hanno iniziato a combattersi e a ferirsi e ad uccidersi, sino a che da tutta quest’immensità di sangue e dolore venivano solo lamenti e ululati e rutti e ansimi.
E sempre accadeva che un Corpo cadesse spossato e gli altri, scoperta la fratellanza della ferocia condivisa, gli si facevano intorno e lo finivano e poi, senza che ancora una sola parola fosse pronunciata, lo sbranavano e se ne cibavano.
Solo in quel momento, mentre si nutrivano, mentre la loro saliva e loro lingue impastavano carne e pelle, mentre i loro denti le facevano a brandelli, mentre la loro gola le deglutiva, solo in quel momento, mentre a ciascuno la parolasuono moriva in gola, sommersa da un rutto profondo, hanno iniziato a comprendersi ed è nato un idioma. Un idioma che era poesia vorticante di senso e che poi ha rallentato lentamente, ha smesso di far mulinello, di salire e precipitare e risalire in gorghi di sentimenti, ha cessato di vibrare, si è posato come una farfalla stanca sul foglio, ed ha taciuto. E i numeri sono stati scritti e così le qualità e le quantità. E quel primo giorno di luce e di suono era uno, ed era dispari. Come dispari sarà l’ultimo giorno, il giorno delle ceneri e del nuovo disordine.
Ma intanto le loro lingue colavano senso come saliva ed essi hanno mescolato le loro bave e i loro suoni per combattersi e per amarsi, per tradirsi e per mentirsi. Per essere la loro fraternità e la loro vendetta. Che sono, infine, la medesima cosa.
Tutto è cominciato così, fratelli e sorelle che seduti e muti mi ascoltate: con un suono.
Tutta la storia dell’uomo e tutta la storia del Dio. Perché l’Universo si controbilancia.

* * * *

Ma quando quegli uomini, stanchi di ascoltare solo parole umane, parole finite, storpie, imprecise, hanno provato a cercare la voce del Dio, hanno udito solo un infinito silenzio.
E allora, poiché la loro stoltezza e la loro ipocrisia gli hanno fatto credere che fosse il Dio ad essere muto e non loro ad essere sordi, hanno deciso di trascrivere quel silenzio nei Libri e così è nata la Scrittura, che è dunque falsa, perché ciò che il Dio pronuncia non può essere scritto, come le vostre misere, immonde, fatue parole di umani, ciò che il Dio pronuncia può essere solo ascoltato e nessuno uomo e nessuna donna può costringerlo nella gabbia di un segno.
Eppure voi credete di Credere, di avere l’unica e giusta Fede, e parlate del Dio e glossate le sue parole, interpretate i suoi segni, commentate le sue sentenze, mentre invece state solo commentando, interpretando, glossando la vostra stessa stolta scrittura.
State adorando un dio di carta, parto mostruoso dei segni e delle icone, che, come i libri, afferma una volta e per sempre.
Ma nell’Universo mondo, abitato da milioni di stelle, da miliardi di scintillanti pianeti, nell’universo delle orbite e delle rivoluzioni, del vuoto e delle forze, nulla è una volta e per sempre, tranne il Dio, ma la sua eternità è nel segreto dell’inafferrabilità della sua voce, che mai non dura più del tempo di un respiro, del battito di un diapason. La coerenza non è qualità che pertenga al Dio, né la memoria, né la ragione, né la pietà, né la compassione, né la misericordia.
Ma voi avete inventato il Verbo. E lo avete adorato. E sulla base di quelle leggi scritte, durante i millenni della Storia, avete costruito le vostre vite, le vostre famiglie, le vostre città, le vostre nazioni. Le avete costruite fondandole sul rispetto di quelle leggi e sulla loro violazione e così avete potuto godere della bontà e della malvagità, dell’onestà e della menzogna, della pietà e della crudeltà, della violenza e del perdono. E sempre avete avuto cura di farlo in nome del Dio.
Ma soprattutto avete scritto. Definitivamente immemori, avete ricordato grazie ai segni e, scrivendo, avete trasformato secoli e secoli di stragi, insensatezze, violenze, in lustri di gloria, d’eroismo, di coraggio, di trionfi, di magnificenza.
Ma le voci di coloro che non leggevano e non scrivevano, perché non gli era concessa la proprietà dei segni, le voci degli sconfitti e degli esclusi, intanto imploravano, amavano, davano voce al dolore e alla rabbia, singhiozzavano, o invece cantavano, o recitavano la trenodia sghemba dell’utopia. Ma di loro i segni non hanno tenuto memoria. Perché parlare è di tutti, scrivere è invece privilegio di pochi, né mai ad uno sconfitto fu concesso alcun privilegio.
È così che è stata costruita la vostra civiltà: una civiltà di carta ed inchiostro, nera come il fondo nero dell’animo vostro, nera come il nero di nubi che all’orizzonte ormai oscura il sole che tramonta e già l’annera. Ieri ho sognato un sogno che già qualcuno aveva sognato prima di me. Ho sognato un verme, un verme grasso e insinuante che mi seguiva. Io, per scacciarlo, ho cominciato a parlare al Dio, e il verme allora – il verme che era muto, ma non sordo – è strisciato via, sotto la porta di questa Chiesa. Poi ha iniziato a piovere, ma era una pioggia silenziosa, che cadeva a terra come una piuma si posa sull’acqua, senza rumore e io mi bagnavo, mi bagnavo sempre più e una goccia, più penetrante delle altre, ha iniziato a scavarmi la mente e si è trasformata in acino di fuoco.
Prima m’ha bruciato la lingua, poi lo stomaco, poi i polmoni e allora non potevo più parlare e respiravo con gli occhi e in quel momento il mio cuore è fuggito via da me passando per il mio ano e io l’inseguivo e allora è riapparso il verme e io avevo sete, ma il verme, muto, stringeva i suoi anelli intorno alla fontana e la inaridiva. Ma io avevo sete e l’ho implorato e allora lui ha permesso che la fontana riprendesse a gettare e io ho bevuto ed era sangue e il sangue non mi placava la sete e io ho implorato di nuovo, e il verme ha iniziato a strisciare, a danzare, lì, davanti a me, che bevevo dalla fontana di sangue, perché il verme non parla, scrive strisciando sulla polvere, vergando caratteri, lettere, il verme tesse la sua tela come un ragno, una tela che è come un lenzuolo e quando il verme passa, resta una patina di carta che copre tutto, solcata come campo da un aratro di segni neri, e su quei segni era scritto ‘acqua’ e, ogni volta che il verme scriveva, il sangue si tramutava in acqua e io bevevo, ma l’acqua non mi dissetava.
Allora ho avuto paura della mia paura e il terrore è svanito: ho urlato con tutta la potenza dei miei polmoni e ho schiacciato il verme sotto il mio tacco e sotto la mia voce e per la forza dell’urlo la fontana si è sgretolata e una fonte d’acqua pura è schizzata verso il cielo e la mia sete ha avuto ristoro. In quel momento mi sono risvegliato.
Ora, dopo questo mio sogno, io vi dico: voi, uomini fatti muti dallo scritto e dalla Legge, iniziate di nuovo a parlare, fate che le vostre parole tocchino i corpi, che la vostra voce li carezzi, che il vostro fiato li riscaldi, o presto il giorno sarà dispari e perderete il conto.
Come potreste mai confessare i vostri peccati scrivendoli su un foglio? Essi devono essere pronunciati, perché siano assolti, poiché solo un suono può essere mondato dalla voce e dalla parola assoluta del Dio. Quando la mia voce vi assolve non occorre alcuno segno, perché laddove è segno, di là fugge il sacro, fugge e lascia in sua vece un’impronta muta, una deiezione che sempre ripete se stessa.
Ma voi siete la sciagurata generazione dei Vermi Sociali e sapete bene che ogni scritto è proprietà di qualcuno, mentre le parole sono di tutti, passano di bocca in bocca, masticate e sputate via, raccolte e condivise, e dunque, poiché ciò che vi interessa non è la salvezza, ma che la salvezza sia vostra, voi continuerete a leggere e a scrivere. Ma nessuno di voi parlerà.
Almeno per l’istante breve in cui risuona una vocale orba di consonante, però, pensate che dal momento in cui avete rinunciato al suono, sempre più è aumentato intorno a voi il rumore, il brusio, l’eco disordinato che ripete sempre la parola sbagliata, quella che nessuno ha mai pronunciato. E adesso che le parole sono fatte di silicio e di luce il frastuono copre tutto. Io non posso più parlarvi, perché voi non riconoscete più le parole pronunciate da un corpo, ma solo quelle false, che sono segni mascherati, risultato di un’algebra di pietra elettrica, quelle che vibrano anche senza che ci sia un fiato che le emetta.

* * * *

Ma voi, voi popolo di muti, voi moltitudine di sordi, voi che mi ascoltate per apprendere a non essere più muti e sordi, continuate a creder che sia questione di vita o di morte, di peccato e di virtù, d’anima e di corpo, perché ancora credete che il mondo vi sia stato dato in proprietà e non in uso. L’etica, invece, è nella libertà dei nostri corpi, nella forza dei nostri appetiti, nel desiderio bruciante di tutte le nostre voglie, ma voi la cercate nello spazio vuoto e ipocrita che separa ogni vostra fame da ogni vostro digiuno, come se il giusto davvero potesse essere nel mezzo e non fosse nel picco bruciante della scelta.
Vi credete ormai eterni, ma avete allungato la vita, non la giovinezza, e come apprendisti Faust vi dannate per potervi consumare sino alla fine, lottate per garantirvi decenni di demenza, d’impotenza, d’assenza, di latenza. Una latenza balbettante, fatta di pelle vuota, di muscoli stracciati, di menti annebbiate, di sessi flosci e, alla fine di questa tortura senza senso, chiedete il perdono del Dio, chiedete che lui salvi la vostra anima. Ma voi non avete un’anima. L’unica anima è Lui. Un’anima che incessantemente risuona nel vuoto della vostra Luce, nel sordo arrancare delle vostre esistenze.
Lui ci ha creati, espellendoci dalle sue viscere, come noi, incessantemente, espelliamo dalle nostre interiora letame, notte e giorno. E noi siamo separati e diversi da lui come quel letame lo è dai nostri corpi odorosi, immacolati, o come il canto d’amore e il grido d’odio sono separati definitivamente da chi per primo li intonò.
Voi siete come i segni balenanti della pittura del Maestro che stanno nella Cappella Antica della Città e la Misericordia di cui parlate, la Misericordia che implorate per un’anima che non avete, è solo quella della luce che illumina i suoi corpi dipinti, nel buio che li cela e che di loro ancor più ci svela. La Misericordia è solo per i corpi, la misericordia è solo della luce, non c’è Misericordia per l’anima e quando il Maestro cercò la Verità, la cercò tra taverne e lotta, tra postriboli e dolore, lasciando che per una volta la sua voce, mugolando di piacere e sofferenza, dipingesse in luogo della sua mano. Perché poi la sua mano potesse fingere quel dolore che davvero aveva provato. Poiché anche lui sapeva che l’Universo si controbilancia. Ma voi sentite padroni del mondo, lo invadete come termiti feroci, togliete ogni spazio ad animali, piante, rocce, fiumi. Lo trattate con la stessa cieca presunzione di un padrone che sfrutta il suo servo ed è tanto cieco da non leggere nei suoi occhi la rabbia per la violenza e la sopraffazione, quella rabbia che in un solo istante lo renderà sovrano di colui di cui appena prima era schiavo, quella rabbia che chiama la Vendetta e ne gode, celandola per pudore sotto la maschera della Giustizia. Ma anzi, sempre più sicuri di voi, brandendo tutti gli strumenti e le armi, i congegni e gli scritti che i Segni vi hanno permesso di conquistare, vi prendete gioco di lui, lo umiliate, lo costringete a modellarsi ai vostri voleri. Lo stuprate, come feudatari rozzi, infilandogli nel corpo tutti i vostri aggeggi, squarciando le sue viscere, rendendolo immondo con i vostri umori.
E ci sono alcuni tra di voi, solo pochi in verità, che ormai vedono dove conduce il sentiero che il Baratro stesso ha costruito, lasciandovi l’illusione di essere stati voi ad averlo tracciato. E vi implorano, urlando che state per annientare il vostro mondo, che state per bruciare dalle fondamenta la vostra unica casa, che state per farla esplodere in un solo istante, come esplode l’artificio del fuoco, nella notte d’estate e così sarà che la vostra fine e la vostra morte, il rombo assordante del loro avvento, apparirà agli altri mondi lontanissimi nel cosmo, come l’esplosione fantasmagorica e silenziosa della Luce, come un florilegio muto e abbagliante di vita. Come la stella cadente di un desiderio che si avvera.
Ma anch’essi, che pure sono tra di voi apparentemente i più saggi, sono più stolti degli stolti.
Essi sono preda della vostra stessa allucinazione, credono come voi che l’uomo sia proprietario del mondo, accecati come voi dai segni e dalle loro profezie arrivano ad immaginare che la vostra libertà, che la vostra potenza, che la forza dei vostri segni sia tanta da permettervi di annientare qualsiasi altra cosa intorno a voi, finanche il pianeta stesso che vi tiene in vita. Anche loro, orbi più dei ciechi, non riescono neanche ad immaginare l’esistenza del mondo, senza che su di esso striscino su due gambe i vermi sociali e letali chiamati uomini. Si illudono che il Dio abbia lasciato proprio a voi il privilegio di distruggere ciò che Lui ha creato.

* * * *

Ma, come sussurra il vento, come fa esplodere il tuono, come è ripetuto da ogni ronzio, da ogni bisbiglio e da ogni urlo, tutto questo non è possibile. Perché in questo tempo, ormai, non tutti i giorni sono pari, e quando il confine sarà superato in quel momento arriverà il disordine, il tempo disuguale su cui suona la matematica sempre imprecisa della creazione. Il tempo della Metamorfosi e della Mutazione.
E quando essa accadrà sarà qualcosa che si propala nell’aria, che vibra e si diffonde come un suono, che infetta come un virus che passa di bocca in bocca.
La Mutazione si infiltrerà in voi come una febbre, poiché è stabilito che l’offesa non sia lavata dal sangue, o dalla catastrofe, ma dalla Metamorfosi e a voi non sarà data la morte, ma la corruzione del corpo.
Avvicinatevi, guardatemi bene, e vedrete già sul mio volto i primi segni della Grande Mutazione, perché io, io che da questo pulpito vi predico, sono colui che porta il segno della fine dei segni, colui che ha sognato il sogno estremo. Guardate! Guardate il mio volto, che già è volto di scimmia, d’uccello, di millepiedi, di verme, di tigre e di cavalletta, perché è questo il vostro destino. Il destino della Metamorfosi. Il fato della Mutazione.
Ma voi mi guardate e non capite, perché i vostri occhi, che sono sordi come le vostre orecchie, muti come le vostre menti, idioti come le vostre bocche, vedono un volto d’uomo, odono una voce di uomo.
Ma se questo volto è volto d’uomo, se vi sembra umana la voce che ascoltate, ciò accade perché l’uomo altro non è che sintesi di tutte le Bestie e se solo potessi con le mie mani, adunche come artigli, strapparmi il volto, voi vedreste bene che esso non è che la somma blasfema e casuale di ceffo di scimmia, di muso di cane, di becco d’aquila, di proboscide fusa a mascelle feline. Se potessi aprirmi il torace, andare dentro con le dita, potrei ridisegnarmi le viscere, trasformarle in sfintere d’uccello, in budello di ruminante, se potessi squarciarmi le cosce e le gambe, qui davanti a voi, da ogni coscia potrei prestidigitarne tre, trasformare il muscolo in stelo d’insetto aracnide, leggero, scattante, in arto di mosca, d’ape, o di ragno, o potrei rimontarmi la rotula, invertirmi l’articolazione e galopparvi davanti con i talloni trasformati in garretti, le dita delle mani indurite in zoccolo, o potrei stirarmi le unghie fino a farle artigli potenti della zampata, o far esplodere piume e penne dai miei bicipiti, potrei librarmi su di voi e precipitarvi alle spalle come aquila spietata che afferra, trasporta in alto e poi lascia precipitare se stessa e la preda in un vortice d’aria, perché lo schiaffo del vuoto la annienti. Oppure, se potessi, con polpastrelli di farfalla, prendere una per una tutte le sfere vibranti della mia voce, e allontanarle una dall’altra, farne cernita, come fa il contadino con il grano e con la spelta, se potessi dividere suono da suono, silenzio da silenzio, voi allora sentireste echeggiare in quest’aula il muggito cupo delle mandrie, il fischio delle prede atterrite, il borbottio digrignante delle belve, il muto accento del pesce e lo stridulo richiamo della iena.
O se invece voi poteste stare qui, nel tempo immenso dell’universo, immobili a osservarmi, nei secoli dei secoli, mi vedreste liquefare lentamente e poi rinsecchirmi farmi polvere che il vento disperde, farmi fosforo che accende l’aria, trasformarmi in terra, roccia, fiori, mi vedreste strisciare tra l’erba, bruco che fugge e scompare, e se solo voleste comparare l’istante del mio tempo da uomo a quello lentissimo e infinito della mia mutazione, allora capireste bene che non c’è niente di ciò che dite umano in me. Che non c’è niente di ciò che dite umano in voi.
Ma prima o poi ciò inevitabilmente accadrà, all’avvicinarsi del giorno dispari che è già qui presso, che ci spia dietro l’angolo della sorte, che commercia il nostro destino con il tempo, come il ruffiano in un lupanare contratta il prezzo della sua sgualdrina! Poiché l’Universo si controbilancia.
La Natura vi si infiltrerà sotto pelle e dirà al vostro sangue: sangue, fatto di cellule e di globuli, sangue fatto d’acqua e calore, che scorre come i fiumi e schizza come i vulcani, sangue, rosso e caldo, tu sei fratello dell’acqua e del vento della pioggia e dei maremoti. Urla, dunque, sangue! Urla e separa. Urla, come urlano le tigri prima del banchetto e ordina alla pelle e alle ossa di ubbidirti, piegale, scolpiscile, plasmale e fa che tutto torni a ciò che era. Poiché questa è la Legge e l’Universo si controbilancia.
E voi, voi che mi ascoltate non abbiate speranza, perché per voi non c’è nessuna speranza: aprite i vostri ventri alla Metamorfosi. Finché c’è tempo accoppiatevi come fanno le ninfe, desiderate come i peccatori, fornicate e toccate per l’ultima volta i vostri corpi, perché da essi sta nascendo il vostro Nemico, il Nemico che è in voi e vi sta già divorando, nervo per nervo. Peccate per l’ultima volta, poiché poi non avrete più né peccato, né pentimento, ma solo l’ansimare abbaiante dell’istinto, che striscia come serpe, assassinate prima dell’ultimo istante, poiché poi potrete solo uccidere per nutrirvi del corpo delle prede, e ogni movente sarà impossibile, parlate ancora un istante, prima che la voce si faccia squittio e il Dio vi schiacci sotto il tacco come millepiedi. Voi siete uomini perché peccate, senza peccato voi non esistete più e se oggi qui io vi assolvo, se mondo i vostri peccati in nome del Dio, è solo per uccidervi, per sottrarvi l’anima, per rubarvi il futuro. E quando tutto sarà compiuto, quando non ci sarà più pollice che si opponga all’indice per vergare la menzogna di sempre nuove profezie, ma solo zampe, artigli e zoccoli, di nuovo la luce si farà nera, e l’oscurità brucerà più del lampo, mentre tutte le somme di tutte le addizioni saranno dispari. Il disordine vorticherà come l’onda calda che arde perché tutto si raggeli e il Dio, per un istante, sarà sordo.
Sarà allora che il giorno dispari giungerà, che l’enorme macchina dell’universo invertirà la marcia e tutti i segni, letti al contrario, perderanno qualunque significato. Le cose si divideranno e si scontreranno l’una con l’altra. La materia collasserà. Ogni colore diventerà il suono della sua sparizione. Tutto ricadrà su stesso, si divorerà da solo.
Infine non resterà più nulla, solo cenere, cenere, cenere celeste che vibra pianissimo e si disperde nell’aria come il sussurro e finalmente si udrà di nuovo, per un ultimo istante, il fiatosuono della prima parola, della prima parola pronunciata all’inverso, come il fiore inverso che sempre si cela nel ventre della poesia, lo stesso che vi crea e che vi annienta. Poi sarà solo luce e cenere. Cenere e luce. Mute.


Creazione per il Napoli Teatro Festival Italia

Testo commissionato dal Napoli Teatro Festival Italia

Per L’età nobile e il contemporaneo

ASSEDIO DELLE CENERI

un progetto a cura di Gabriele Frasca

regia e musica Roberto Paci Dalò - Giardini Pensili

produzione Napoli Teatro Festival Italia

Certosa di San Martino - 22 e 23 Giugno

prediche originali di Luciano Barca, Stefano Boeri, Alessandro Dal Lago, Luca Doninelli, Jolanda Insana, Giacomo Lubrano, Piergiorgio Odifreddi, Tommaso Ottonieri, Patrizia Valduga, Lello Voce

con Franco Branciaroli, Claudio Di Palma, Jolanda Insana, Saverio La Ruina, Enzo Moscato, Silvio Orlando, Umberto Orsini, Tommaso Ottonieri, Massimo Popolizio, Patrizia Valduga, Lello Voce

spazio scenico e luci Roberto Paci Dalò

collaborazione allo spazio scenico Verter Turroni / Il Laboratorio dell’Imperfetto

costumi Stefan Dalovic’

assistenti alla regia Ambra Galassi, Marilù Parisi

iconografia Ambra Galassi

organizzazione e coordinamento di produzione Marilù Parisi

produttore esecutivo Marco Balsamo

creazione materiali audio Velvet Factory e Giardini Pensili, Rimini

Altro in Testi Teatrali

1 Messaggio

Altro in Romanzi