Realtà tossica per reclusi e cucarachas di Tommaso Ottonieri

Carta Etc., 2006 22 novembre 2006 Il Cristo Elettrico
<i>Realtà tossica per reclusi e cucarachas</i> di Tommaso Ottonieri

“Il Cristo Elettrico” è il titolo sotto cui Lello Voce riunisce, in un volume “falsamente terzo” (risultato dell’intreccio, stringente e straniante, dei primi due – quasi l’uno fosse il ‘testo a fronte’ dell’altro), il dittico “tossico” che pubblicò (presso Transeuropa e presso Derive Approdi) in quello stallo epocale, ricco di aspettative e angosce apocalittiche, posto, rispettivamente, nel 1999 e nel 2001 (quello stallo, che si protrae almeno fino a qui). Per trovare esito dunque solo in un tempo altro, in una sorta di creaturalità compiutamente “ircocervica”: come qualche personaggio “doppio” tratto dalla filmografia di Jodorowsky, “un solo essere, fatto da un monco e da uno zoppo” (dice lui nella premessa). Il dittico ormai pseudo-trilogia ‘lavorava’ (lavora), in una chiave a metà strada fra engagement e invasamento, una materia aspra e chioccia quant’altre mai; vale a dire l’epopea terminale di una soggettività “tossica e letterata”, e della parabola tra Passione (cristologica) e reclusione (ingresso in una temporalità aliena che, nella sua stessa insostenibilità, sarà la sola in cui il Narratore potrà svelarsi). Ed è una scrittura che giusto nella rescissione fra le due temporalità, che si rincorrono e si estraniano vicendevolmente, rivela quanto il suo principio compositivo sia, in qualche modo, il centro tematico della sua gravità: quasi che “l’oggetto principale di tutto sia stato il tempo e il suo apparente fluire” (il tempo, e la sua finzione).

Come se, ciò che importa, in un atto narrativo, non fosse altro che il tempo; e l’opera, qualsiasi opera, qualsiasi oggetto che ci ostiniamo a considerare compiuto, non esistesse se non come attraversamento o processo – e solo nell’arco del suo modificarsi nel corso del tempo, trovasse il suo senso, la sua modificazione. E vorrei ricordare allora come l’atto secondo del dittico trilogico, fosse stato scritto (caso probabilmente irripetuto, almeno qui da noi) in una forma estrema di tempo-reale, on line sotto gli occhi virtuali dei naviganti mediati da una webcam (quale manna, per il filologo che si fosse preso la briga di assistervi!): quasi che l’Autore replicasse, allegorizzandola, la reclusione del suo tossico, di sé.

E difatti, quest’opera “moncamente” ricomposta, pone al proprio centro la questione stessa del tempo-reale (e dell’intreccio dunque di tempo e di reale); nodo, davvero, della temporalità che noi viviamo. Quella collettiva (paranoicamente intrisa di una metafisica del Virtuale e del suo Globale, spinta a simulare attorno a noi un’immobile/immobilizzante eternità di presente – ma insieme radicata nella barbarie dei neofondamentalismi immobilizzanti, se possibile, anche più); quella individuale (quell’essere-al-mondo, privatissimo e condiviso, che ci è dato, e ci riguarda).

Il romanzo, intrecciato su una duplice temporalità, si dispiega dunque lungo una linea di fisicità esasperata, visionario-apocalittica dunque e ultrarealistica, pure: e l’espressione “body art” cade appunto, a mo’ di ironico programma, nel titolo di uno dei capitoli-chiave. Al tempo stesso, manifesta una ragione/sragione iratamente ‘filosofica’, al confine del più barocco, concettoso dei furori: qui, giusto alla soggettività fantastico-delirante (la blatta ispanofona e di ascendenza kafkiana, presente nella sezione derivata da Cucarachas) verrà affidato un ruolo di riflessione e di “sragionante” paradossale saggezza. Come notava Aldo Nove, nel recensire alla prima uscita questo lavoro (e riflettendo credo sulla “diretta” stessa internettuale, di cui sopra), “giù dal suo altarino istituzionale, l’intellettuale è un tossico che si guarda morire”… E il campo allegorico, da sempre matrice dell’operare di Voce, s’impenna giusto dai tizzoni di questo neorealismo fiammante, e prende lingua e spessore.

Ma, dicevo, la forma e il tema più autentici di questo lavoro, trovano il loro fuoco (incenerente alla lettera, nel gesto con cui il romanzo bino e trino si conclude) sulla già mediatica questione del “tempo reale”: questione centralissima oggi e critica sommamente, se coinvolge due entità contigue (il “tempo” e la “realtà”) e ambedue in crisi (tempo “apparente”, diceva Voce). E tanto più ironicamente in gioco, oggi, nell’impero realizzato e già fatiscente del Reality Show, nella sua posticcia forma di “presente”: quel presente, che appunto viene precipitato, nel fondo di quest’opera, sulla sostanza “drogata e inabitabile” (notava Cortellessa) che, realmente, lo contiene. Ciò che nel secondo tempo (intrecciato al primo) dell’iper-romanzo, la soggettività (lucida e delirante, tossica e letterata) del protagonista proverà a fare, recluso-scriba entro l’inferno di carcere e cella e la microsocietà horror che li abita (specchio esemplare della macro-, naturalmente), ha a che vedere innanzitutto col fantasma di un presente, che egli riflette in sé, da cui criticamente si aliena. Perché l’intellettuale tossico o recluso, il Cristo Elettrico che si fa carico di tutto l’incubo d’un presente/irreale consapevole di non poter redimerlo in alcun modo, è appunto rivelare il supplizio di questo tempo penitenziario che tutto (parcellizzando) ingloba. Dentro e fuori sbarre tangibili o mentali (dove il “dentro” è una metafora del “fuori”: e viceversa). In un corpo-a-corpo titanico ed “ettorico” (eroicamente perdente) con quanto di più destitutivo (della Realtà e del Tempo) è implicato dalla nozione stessa che li raduna e, all’atto stesso, più profondamente rescinde. Perché, nella “realtà” del vivere odierno, “tempo-reale” è idea che definisce tutta intera una microfisica del corpo sociale: quella che, in modi microscopicamente diffusi, si basa sulla tipica legge del sorvegliare-e-punire, propria di ogni modernità: dal sistema, integrato o disintegrato, di un postfordismo neo-bracciantile, nebulosamente de-regolato, alla tele-società pavlovizzante che ne è generata, all’incubo di ogni “Grande Fratello”, fino appunto ai vari gironi e stadii-di-coscienza di una reclusione carceraria che (dall’11/9 in avanti) avvolge sempre più palpabilmente il nostro stato di semilibertà ipervigilata.

Non è un caso che il narrante ritorni periodicamente, nel suo speculare invettivale, sul fulcro di questa temporalità ad ogni effetto tematizzata. Su questo “presente” orrido e delirato, (de)reale tempo globalmente immobile, che ci si è insediato nei circuiti come una scimmia impalpabile. Tempo elettrico, transistorizzato (quando “il tubo è esaurito… i transistor fulminati”…), di un vivere “eternamente […] nello stesso attimo”, e risorsa ultima è “mettersi in stand by”: il flash tossico dell’autodistruzione, in attesa che scatti il millisecondo che ci terminerà. Quello che, specularmente, nel tempo-reale della vita “normale” (inconsapevole della sua essenza tossica), non potrà mai terminare, pena lo svelarsi del “deserto del reale” che deriverebbe dal crollo dell’allucinazione consensuale che chiamiamo, oggi, la Realtà.

La riflessione narrativa di Voce, nella figura oggi old-fashioned dell’eroinomane, sta ad allegorizzare insomma (in forma necessariamente degradata – e, in più punti, polifonica, poematica, carnevalizzante) nulla di meno del delirio integrato di Realtà, che abitiamo: animiamo. Il tossico elettrico transistorizzato svalvolante ovunque, è interprete della stessa aliena epopea espressionistico-barocca, che dà vita all’incubo di Matrix: riflettersi nella testura della carne (ultimo, il più irriducibile, degli effetti di realtà) della Temporalità stessa, presa giusto nel fuoco del suo collassamento, della sua disparizione. E finanche in quel fuoco, istituire una linea di resistenza: l’unica, per cui l’elettricità possa trasmettersi, per divenire-altro.

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