Tra Benjamin e gli Aimara di WU MING 1

1 settembre 2007 Il Cristo Elettrico
<i>Tra Benjamin e gli Aimara</i> di WU MING 1

Abbiamo tra le mani un mostro. Una trilogia in un unico volume, la trilogia dell’Enrico, tossicomane sui generis, amante della poesia e amico delle blatte.

Lello Voce ha cucito insieme i suoi due romanzi Eroina (Transeuropa, 1999) e Cucarachas (DeriveApprodi, 2001), ottenendo un’opera che è molto, molto più della somma delle sue parti. Ha montato i due romanzi a capitoli alternati, dimodocché a ciascun atto della tragicommedia di Eroina segue una delle lettere dal carcere che componevano Cucarachas, solo che queste ultime sono disposte a rovescio: si parte dall’ultima, dal suicidio dell’Enrico per elettrocuzione (così sappiam già come va a finire!), e si procede fino alla prima, con l’Enrico che entra al gabbio. Man mano che procediamo a ritroso, sulla corsia sbagliata, dobbiamo fare lo slalom per scansare i capitoli di Eroina che, loro sì, corrono nell’usuale senso di marcia. Si rischia l’incidente, si rischia, ma questo è vraiment génial, tutto diventa relativo, i progetti dell’Enrico, i piani, le fughe, le fighe, perché la fine è nota... Del resto, è comunque troppo tardi. Da piccolo l’Enrico mica voleva fare il tossico, figurarsi: voleva fare il macellaio, passeggiarsi la giornata tra mezzene, quarti anteriori, quarti posteriori, lame che decidono dove segare, tagliare, sezionare, recidere, e invece programma assalti alle farmacie, cerca un misero ago e la bellabianca da spararsi in vena, bang!, bang!, di colpo lei... Si sbatte tutto il dì, con altri o in solitudine ("Tossico solo, la trova al volo"), ma si ritrova sempre coi dolori dell’astinenza, col corpo che protesta e rivendica e lui deve andare alla vertenza:

Con i sindacati suoi l’Enrico aveva sempre scelto la strada della trattativa, aveva preferito che salisse l’inflazione-assuefazione... Evviva un’esistenza tutta a Scala Mobile. Tutto meglio che lo scontro sociale. Era un berlingueriano dello sballo morto... un erede del gramscianesimo della robazza bianca... Un ragazzo responsabile, insomma. (pag.78)

Ma quando la rivoluzione ritarda tutta la merda ricomincia daccapo (Marx), ed è comunque troppo tardi, perché l’unico modo di fuggire da un luogo che l’Enrico conosce è attraversarlo tutto quanto, e quel luogo è la dipendenza, e lui la percorre, o corre per lei... Ché forse non è il tempo a passare, siamo noi a passarci dentro, "branchi di asini dietro cascate di carote"... E’ comunque troppo tardi, perché non c’è rimedio al delitto, la pena non risolve non rieduca non raddrizza, "chi rompe paga e i cocci e tutti i cazzi conseguenti sono suoi. Ma di qui a ricomporre il vaso ce ne passa..." E’ la poesia che potrebbe salvarci, forse? Ma la poesia è soltanto soundtrack di una triste sodomia da gattabuia:

«Ho passato ore così, in quest’ultimo mese, alla luce di una pila tascabile appoggiata accanto al corpaccio della Benedetta, seduto sullo sgabello di lato alla brandina, con un libro nella mano destra e nella sinistra un bel cetriolo lubrificato, arando e leggendo, e avevo pure trovato un buon ritmo, oramai ero allenato. | Ho cetriolato la Benedetta al ritmo dei più importanti testi della letteratura mondiale, l’ho infilzata declamando di Brunetto Latini e della NEP, Dante e tovarich Maiakovskij, c’è stata la settimana eliotiana, dedicata ai Quattro quartetti e quella poundiana, con libera crestomazia dai Cantos, una selezione italiana che comprendeva i peggiori del primo Novecento, da Montale a Sereni, e poi tanto compagno Brecht che non fa mai male... »(pag.56)

E’ comunque troppo tardi, sappiamo già che il cold turkey di pag.98, la disintossicazione coatta per mano di coatti, ha sortito solo la lucidità di rompere ancora e pagare ancora, ché i cocci e i cazzi conseguenti sono tutti dell’Enrico.

E’ comunque troppo tardi: noialtri, leggendo a ritroso, veniamo dal tempo in cui la rivolta carceraria della lettera quinta (farsesca, "fiero pasto" per media mediocri) si è risolta in un tetro nonnulla. Veniamo dal tempo della lettera sesta, che è già alle nostre spalle, e procediamo rapidi e rapiti verso la quarta, mentre l’Enrico di Eroina - che ancora non sa com’è andata a finire in futuro - sogna la rivolta islamica, "tutti i Mohamed alla riscossa per le vie di paesi e città".

Il passato è davanti a noi, non dietro. C’è un popolo amerindio, delle Ande centrali, che è d’accordo col Walter Benjamin di Angelus Novus. Si chiamano Aymara. La loro parola per "futuro" è qhipa, la stessa che usano per "dietro" e "indietro". La loro parola per "passato" è nayra, la stessa che usano per "occhi", "vista" e "davanti". "L’anno scorso" è nayra mara, cioè - letteralmente - "l’anno che sta di fronte". Quando un Aymara parla del futuro, indica col pollice alle proprie spalle. Quando parla del passato, indica in avanti con le mani, tenendole vicine al torso se il passato è recente, allontanandole se il passato è remoto. A pensarci ha senso: il passato l’ho già visto, quindi ce l’ho davanti agli occhi. Il futuro devo ancora vederlo, quindi è nascosto, è dietro di me.

L’Enrico, quello delle lettere alla madre, marcia spedito verso il passato, verso il primo degli omicidi che lo mandano in galera. E’ un Enrico già morto, lo sappiamo. Viaggiando dentro questa morte, questo tempo fermo, incrocia più volte se stesso che scende la china.

La lingua... La lingua di questa "monotrilogia" è un liquido denso e greve, come se l’autore avesse sciolto in acqua di fogna lingua in polvere, lingua liofilizzata. Voce è un poeta prima che un prosatore, un poeta che declama ad alta voce, e si vede: questa è una lingua ritmata, di effetti percussivi, fatta apposta per essere gridata, con la gola che un po’ squarcia, la voce che rimbalza nelle cavità facciali. Ecco perché le paronimie, le paronomasie ("fardellino fratellino", "sua umana e sub umana"). Ecco perché quei versi novenari (o che evocano il novenario): sono rullate di batteria, li leggi e ti fanno rotolare avanti, veloce veloce verso il passato.

Sorride spietato l’Enrico. | Cioè? L’Enrico non coglie. | Gli sfugge o fa finta di niente. | Un quarto di nulla purissimo. | Sei bassa e meschina e ci godi. | L’Enrico si gira di spalle. | Cazzo! Era stata una strage.

Una strage. Eppure è un libro sull’innocenza. Eppure è un libro di speranza. Forse perché l’angelo ha le ali scompigliate dal vento, il vento che soffia dal futuro lo frusta sulla schiena, ne sbilancia il volo e quello sbilanciamento lo chiamiamo... "progresso"? Nah... "Rivoluzione?" Boh... "Equa ridistribuzione del tesoretto?" Bleah...

Può darsi che abbiamo perso la parola, caduta dalla punta della lingua quando stavamo per pronunciarla, ma non abbiamo perso la sensazione, non abbiamo scordato il calore. In fondo, il viaggio dell’Enrico a doppio senso alternato, dalla morte alla sfiga e dalla sfiga alla morte, ci ricorda che c’è bisogno di una rottura con l’esistente, di qualcosa, qualcuno che interrompa ’sto ciclo sfibrante. Conficcare un piccone nella banchisa degli "sballi morti". Aprire una linea di frattura nel ghiaccio. Una linea che s’allunghi e s’allunghi e si slarghi, e qualcosa ne verrà.

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