L’esercizio della lingua ovvero le forme plurime del fare arte - di Ade Zeno e Gilda Policastro

Liberazione, 2008 1 novembre 2008 03. L’esercizio della lingua
Poesie 1991-2008
L’esercizio della lingua ovvero le forme plurime del fare arte - di Ade Zeno e Gilda Policastro

L’esercizio della lingua, ovvero le forme plurime del fare arte
di Ade Zeno

Esce in questi giorni, grazie all’infaticabile, appassionato e assai prolifico lavoro editoriale della collana Fuoriformato della casa editrice Le Lettere, un volume ricco e prezioso che raccoglie l’ideale (auto)antologia di Lello Voce, un poeta maiuscolo che in un quasi ventennio di attività ha saputo trasformare la propria voce – nomen omen, come sottolinea Andrea Cortellessa nel risvolto del volume – in essenza materica, corporea, irrimediabilmente concreta. Voce che si commuta in verso (e viceversa) in un continuo inesauribile scambio, la parola scritta che prende vita e oltrepassa la pagina per espandersi altrove in cerca di contatto, di condivisione collettiva, al costo di spingersi fino alle zone del conflitto, della denuncia disturbante che vuole (e può) mettere sul piatto la scommessa di rivoluzionare il mondo grazie alla potenza del versificare. Stando di lato, in disparte, a perdifiato, tanto per citare gli emblematici versi che aprono la prima sezione della raccolta, il respiro del poeta che indignandosi grida è una forza invisibile ma non astratta, solo apparentemente effimera, di certo non innocua: scalcia, fa a pugni con le circostanze, se calibrato e consapevole ha la facoltà di appiccicarsi alle orecchie di chi lo ascolta, graffia, pulsa, ferisce i timpani e la gola. Lello Voce, insomma, non ha niente a che spartire con un’idea di poetare imprigionato tra le mura di stanze chiuse, i territori in cui si muove sono aperti, spalancati, il desiderio (civile, militante) di abolire gabbie e confini è quasi un dictat, una condizione necessaria da cui vale la pena non discostarsi mai; ed ecco allora il salto dalla pagina, il testo che si allea con la musica, con il video, con la performance live, e insieme a loro cresce, si evolve, aumenta di peso, sfonda di prepotenza lo spazio. Primo in Italia a importare l’ormai felicemente diffusissima arte dello Slam Poetry, instancabile animatore di accesi dibattiti, inventore di un importante festival come i Cantieri Internazionali di Poesia Absolute Poetry di Monfalcone, tra i fondatori del Gruppo ’93 e della rivista Baldus, Voce non ha mai smesso di interrogarsi sugli obiettivi e sulle forme del fare poetico, in un convinto e continuo confronto con le “linee laterali” della letteratura passata e presente (Cacciatore, Villa, Folengo, Michelangelo, Jahier, de Campos), elementi che trovano nella contaminazione un principio fondamentale di ricerca pur senza dimenticare la volontà di seppellire una volta per tutte l’usurata e sterile contrapposizione Tradizione versus Avanguardia. A esaminare accuratamente la nitida complessità di questo percorso ci pensa Marianna Marrucci, autrice del saggio “Per una nostalgia del futuro” riportato a fine volume, in cui visita in chiave critica il corpus vociano, e seguito da un altro ammirevole intervento, questa volta a firma del musicologo Stefano La Via, che, da sempre incuriosito dai rapporti fra poesia e musica, si cimenta ora in una minuziosa analisi “razionalemotiva” del fastbloodiano “Lai del ragionare lento”. Impostato su una geografia a ritroso (prima i componimenti più recenti di Piccola cucina cannibale, poi il Fast Blood del 2002, le Farfalle da combattimento del 1999, e infine le due raccolte più lontane nel tempo, I segni i suoni le cose, 1995, e (Musa!), 1991, L’esercizio della lingua è molto più di una collazione testuale: perfettamente in linea con la natura strabordante del suo autore (e della collana in cui viene pubblicato, nota per aver fatto della multimedialità un aspetto essenziale) è un documento prismatico, multiprospettico, in grado di restituirci un quadro completo delle forme plurime in cui Voce ha condotto e affinato la propria arte. Quadro che si allarga nel supporto digitale allegato – un pionieristico DADV bicefalo – che riporta sul lato A otto tracce audio registrate insieme a musicisti d’eccezione come Paolo Fresu, Antonello Salis e Frank Nemola, e sul lato B varie sezioni video tra cui i poetry clip di Giacomo Verde e alcune performance live del poeta. Duplice faccia della stessa medaglia, dunque, anzi triplice, quadrupla, o più indefinibilmente ennesima. Una medaglia senza sfaccettature nascoste che va guardata e ascoltata nella sua interezza, lato con lato, voce con Voce.

Gilda Policastro intervista Lello Voce

Dire nomen omen non fu mai così calzante: sono ormai vent’anni che fa sentire la sua Voce, Lello. Ed esce ora un’antologia, L’esercizio della lingua (Le Lettere, pp. 156, euro 28, con il DADV Piccola cucina cannibale), che di quest’attività ripercorre le tappe fondamentali, dando conto della complessità di un’esperienza che si è arricchita sempre più, oltre alle parole, di musica, immagini, corpo vivo: il libro come insieme di pagine è per questo autore un oggetto quanto mai desueto.
L’antologia appena uscita ripercorre la sua attività da “Musa!” del ’91 a “Piccola cucina cannibale” del 2006-2008, e però seguendo l’ordine cronologico inverso. Ma come si è svolto “l’esercizio della lingua”, di quali influenze, suggestioni, collaborazioni si è nutrito?
Convinto come sono che il passato stia davanti a noi, e il futuro invece ci corra incontro alle spalle non potevo che proporre un cammino “archeologico” per quest’antologia delle mie cose. A voler ripristinare l’ordine “normale” degli eventi direi che tutto parte sotto un’evidente egida poundiana, condita da un amour fou per Artaud, Brecht, Jahier. Poi è arrivato il dialogo con l’opera di alcune grandi personalità italiane, tra loro difficilmente conciliabili, mi rendo conto, come Balestrini, Pagliarani, Fortini, Zanzotto, Costa, Vicinelli. Ma se dovessi davvero cercar paternità emigrerei nel Brasile di Haroldo De Campos, dove incontrerei Emilio Villa. Nel corso di questo cammino le tappe più importanti sono state certamente l’esperienza di Baldus e del Gruppo 93, e poi la scoperta della Rete, la collaborazione con artisti come Paolo Fresu, Frank Nemola, Michael Gross, Luigi Cinque, Giacomo Verde, Silvio Merlino. Con loro compongo le mie poesie, o meglio le poesie di cui scrivo il testo e che eseguiamo insieme sul palco: loro non mi “accompagnano”, piuttosto è la mia voce, in contrappunto con i loro suoni e le loro immagini, ad essere il vero “corpo” di quella poesia.
Tra le sue varie attività c’è la direzione di “Absolute poetry”, cantieri permanenti di poesia che culminano nel Festival internazionale di Monfalcone. Cos’è cambiato rispetto ai primi anni in cui proponeva gli “slampoetry”? C’è ancora resistenza rispetto alle esperienze poetiche legate all’oralità?
Il primo “evento” di poesia a cui ho assistito nel ’77 era Castelporziano, poi nel 1989 partecipai al mio primo festival internazionale, Milano Poesia. Da allora ho avuto la fortuna di prendere parte, di dirigere e organizzare molti festival e in tutti questi casi le platee erano disponibilissime, nessuna traccia di resistenza. Anche la critica è ormai certamente attenta, sebbene non teoricamente adeguata, alla poesia ad alta voce. In realtà le uniche resistenze sono quelle che vengono da una certa lobby trasversale di “feudatari” del verso (e dai loro giovani servi sciocchi), negli ultimi tempi anche con spiccate tendenze confessionali, che occupa i posti di potere dell’editoria italiana di poesia. Il paradosso è poi che la maggior parte di questi onesti letterati te li ritrovi sul palco dei festival di poesia in tutta Italia, che balbettano i loro versi muti. In realtà ciò che fanno è solo sfogare il narcisismo dei loro corpi esposti al voyeurismo del pubblico. Una cosa a cui non riescono proprio a rinunciare, e che con la poesia “performata” non c’entra nulla. Ecco un’ottima ragione per tacciare di spettacolarità chi sa fare ciò che loro non sanno fare. Come direbbe il grande Leonetti: in Italia «c’è un ammasso di vecchiaia che fa un ingorgo immobile»!
In un’intervista del 2004, riportata nel dvd accluso al libro, mette in relazione il poeta e la comunità: senza questa relazione, lei dice, «muore il poeta e muore la comunità». Ma qual è la comunità di riferimento, oggi, per la poesia?
Potrei rispondere la “moltitudine”, ma suonerebbe retorico. Diciamo più semplicemente quel pubblico, a volte minimo altre assai meno flebile, che segue le performance di poesia: pubblico non è una brutta parola, è una parola bellissima, è il contrario di privato. Poi, per dirla con Deleuze: si scrive sempre per un popolo che ancora non c’è, come Dante nel Convivio, si parva licet...
La semplicità è il comunismo, è il titolo di una delle poesie dell’antologia. Sottotitolo “che è difficile a farsi”…
Il verso è un ribaltamento del celeberrimo brechtiano. La poesia da cui è tratto è nata per l’appunto in occasione dell’anniversario brechtiano, per la Brecht Fest presso il Berliner Ensamble. E’ certo che oggi la parola comunismo sia svuotata, che dunque esso sia “difficile” a farsi. Difficile ridargli un senso, difficile pronunciarne il nome, definirne i contorni, ma altrettanto certo è che è necessario ridare un nome a quel sogno che esiste da sempre e che il Novecento, appena definitivamente trascorso, ha scelto di chiamare comunismo. E i nomi, le parole, si sa, sono di competenza dei poeti, che stanno lì apposta per “tenere in esercizio la lingua”.

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