L’esercizio della lingua ovvero le forme plurime del fare arte - di Ade Zeno e Gilda Policastro
L’esercizio della lingua,
ovvero le forme
plurime del fare arte
di Ade Zeno
Esce in questi giorni, grazie all’infaticabile, appassionato e assai prolifico lavoro editoriale della collana Fuoriformato della casa editrice Le Lettere, un volume ricco e prezioso che raccoglie l’ideale (auto)antologia di Lello Voce, un poeta maiuscolo che in un quasi ventennio di attività ha saputo trasformare la propria voce – nomen omen, come sottolinea Andrea Cortellessa nel risvolto del volume – in essenza materica, corporea, irrimediabilmente concreta. Voce che si commuta in verso (e viceversa) in un continuo inesauribile scambio, la parola scritta che prende vita e oltrepassa la pagina per espandersi altrove in cerca di contatto, di condivisione collettiva, al costo di spingersi fino alle zone del conflitto, della denuncia disturbante che vuole (e può) mettere sul piatto la scommessa di rivoluzionare il mondo grazie alla potenza del versificare. Stando di lato, in disparte, a perdifiato, tanto per citare gli emblematici versi che aprono la prima sezione della raccolta, il respiro del poeta che indignandosi grida è una forza invisibile ma non astratta, solo apparentemente effimera, di certo non innocua: scalcia, fa a pugni con le circostanze, se calibrato e consapevole ha la facoltà di appiccicarsi alle orecchie di chi lo ascolta, graffia, pulsa, ferisce i timpani e la gola. Lello Voce, insomma, non ha niente a che spartire con un’idea di poetare imprigionato tra le mura di stanze chiuse, i territori in cui si muove sono aperti, spalancati, il desiderio (civile, militante) di abolire gabbie e confini è quasi un dictat, una condizione necessaria da cui vale la pena non discostarsi mai; ed ecco allora il salto dalla pagina, il testo che si allea con la musica, con il video, con la performance live, e insieme a loro cresce, si evolve, aumenta di peso, sfonda di prepotenza lo spazio. Primo in Italia a importare l’ormai felicemente diffusissima arte dello Slam Poetry, instancabile animatore di accesi dibattiti, inventore di un importante festival come i Cantieri Internazionali di Poesia Absolute Poetry di Monfalcone, tra i fondatori del Gruppo ’93 e della rivista Baldus, Voce non ha mai smesso di interrogarsi sugli obiettivi e sulle forme del fare poetico, in un convinto e continuo confronto con le “linee laterali” della letteratura passata e presente (Cacciatore, Villa, Folengo, Michelangelo, Jahier, de Campos), elementi che trovano nella contaminazione un principio fondamentale di ricerca pur senza dimenticare la volontà di seppellire una volta per tutte l’usurata e sterile contrapposizione Tradizione versus Avanguardia. A esaminare accuratamente la nitida complessità di questo percorso ci pensa Marianna Marrucci, autrice del saggio “Per una nostalgia del futuro” riportato a fine volume, in cui visita in chiave critica il corpus vociano, e seguito da un altro ammirevole intervento, questa volta a firma del musicologo Stefano La Via, che, da sempre incuriosito dai rapporti fra poesia e musica, si cimenta ora in una minuziosa analisi “razionalemotiva” del fastbloodiano “Lai del ragionare lento”. Impostato su una geografia a ritroso (prima i componimenti più recenti di Piccola cucina cannibale, poi il Fast Blood del 2002, le Farfalle da combattimento del 1999, e infine le due raccolte più lontane nel tempo, I segni i suoni le cose, 1995, e (Musa!), 1991, L’esercizio della lingua è molto più di una collazione testuale: perfettamente in linea con la natura strabordante del suo autore (e della collana in cui viene pubblicato, nota per aver fatto della multimedialità un aspetto essenziale) è un documento prismatico, multiprospettico, in grado di restituirci un quadro completo delle forme plurime in cui Voce ha condotto e affinato la propria arte. Quadro che si allarga nel supporto digitale allegato – un pionieristico DADV bicefalo – che riporta sul lato A otto tracce audio registrate insieme a musicisti d’eccezione come Paolo Fresu, Antonello Salis e Frank Nemola, e sul lato B varie sezioni video tra cui i poetry clip di Giacomo Verde e alcune performance live del poeta. Duplice faccia della stessa medaglia, dunque, anzi triplice, quadrupla, o più indefinibilmente ennesima. Una medaglia senza sfaccettature nascoste che va guardata e ascoltata nella sua interezza, lato con lato, voce con Voce.
Gilda Policastro intervista Lello Voce
Dire nomen omen non fu mai così calzante:
sono ormai vent’anni che fa
sentire la sua Voce, Lello. Ed esce ora
un’antologia, L’esercizio della lingua
(Le Lettere, pp. 156, euro 28, con il
DADV Piccola cucina cannibale), che
di quest’attività ripercorre le tappe
fondamentali, dando conto della
complessità di un’esperienza che si è
arricchita sempre più, oltre alle parole,
di musica, immagini, corpo vivo:
il libro come insieme di pagine è per
questo autore un oggetto quanto
mai desueto.
L’antologia appena uscita ripercorre
la sua attività da “Musa!” del ’91 a
“Piccola cucina cannibale” del
2006-2008, e però seguendo l’ordine
cronologico
inverso. Ma come si
è svolto “l’esercizio
della lingua”, di
quali influenze,
suggestioni,
collaborazioni si è
nutrito?
Convinto come sono
che il passato stia davanti
a noi, e il futuro
invece ci corra incontro
alle spalle non potevo
che proporre un cammino “archeologico”
per quest’antologia delle mie
cose. A voler ripristinare l’ordine
“normale” degli eventi direi che tutto
parte sotto un’evidente egida poundiana,
condita da un amour fou per
Artaud, Brecht, Jahier. Poi è arrivato
il dialogo con l’opera di alcune grandi
personalità italiane, tra loro difficilmente
conciliabili, mi rendo conto,
come Balestrini, Pagliarani, Fortini,
Zanzotto, Costa, Vicinelli. Ma se dovessi
davvero cercar paternità emigrerei
nel Brasile di Haroldo De Campos,
dove incontrerei Emilio Villa.
Nel corso di questo cammino le tappe
più importanti sono state certamente
l’esperienza di Baldus e del
Gruppo 93, e poi la scoperta della Rete,
la collaborazione con artisti come
Paolo Fresu, Frank Nemola, Michael
Gross, Luigi Cinque, Giacomo Verde,
Silvio Merlino. Con loro compongo
le mie poesie, o meglio le poesie di
cui scrivo il testo e che eseguiamo insieme
sul palco: loro non mi “accompagnano”,
piuttosto è la mia voce, in
contrappunto con i loro suoni e le loro
immagini, ad essere il vero “corpo”
di quella poesia.
Tra le sue varie attività c’è la
direzione di “Absolute poetry”,
cantieri permanenti di poesia che
culminano nel Festival
internazionale di
Monfalcone. Cos’è
cambiato rispetto ai
primi anni in cui
proponeva gli “slampoetry”?
C’è ancora
resistenza rispetto
alle esperienze
poetiche legate
all’oralità?
Il primo “evento”
di poesia a cui ho
assistito nel ’77 era Castelporziano,
poi nel 1989 partecipai al mio
primo festival internazionale, Milano
Poesia. Da allora ho avuto la fortuna
di prendere parte, di dirigere e
organizzare molti festival e in tutti
questi casi le platee erano disponibilissime,
nessuna traccia di resistenza.
Anche la critica è ormai certamente
attenta, sebbene non teoricamente
adeguata, alla poesia ad alta voce. In
realtà le uniche resistenze sono quelle
che vengono da una certa lobby
trasversale di “feudatari” del verso (e
dai loro giovani servi sciocchi), negli
ultimi tempi anche con spiccate tendenze
confessionali, che occupa i
posti di potere dell’editoria italiana
di poesia. Il paradosso è poi che la
maggior parte di questi onesti letterati
te li ritrovi sul palco dei festival
di poesia in tutta Italia, che balbettano
i loro versi muti. In realtà ciò che
fanno è solo sfogare il narcisismo dei
loro corpi esposti al voyeurismo del
pubblico. Una cosa a cui non riescono
proprio a rinunciare, e che con la
poesia “performata” non c’entra nulla.
Ecco un’ottima ragione per tacciare
di spettacolarità chi sa fare ciò
che loro non sanno fare. Come direbbe
il grande Leonetti: in Italia
«c’è un ammasso di vecchiaia che fa
un ingorgo immobile»!
In un’intervista del 2004, riportata
nel dvd accluso al libro, mette in
relazione il poeta e la comunità:
senza questa relazione, lei dice,
«muore il poeta e muore la
comunità». Ma qual è la comunità di
riferimento, oggi, per la poesia?
Potrei rispondere la “moltitudine”,
ma suonerebbe retorico. Diciamo più
semplicemente quel pubblico, a volte
minimo altre assai meno flebile,
che segue le performance di poesia:
pubblico non è una brutta parola, è
una parola bellissima, è il contrario di
privato. Poi, per dirla con Deleuze: si
scrive sempre per un popolo che ancora
non c’è, come Dante nel Convivio,
si parva licet...
La semplicità è il comunismo, è il
titolo di una delle poesie
dell’antologia. Sottotitolo “che è
difficile a farsi”…
Il verso è un ribaltamento del celeberrimo
brechtiano. La poesia da cui è
tratto è nata per l’appunto in occasione
dell’anniversario brechtiano, per la
Brecht Fest presso il Berliner Ensamble.
E’ certo che oggi la parola comunismo
sia svuotata, che dunque esso
sia “difficile” a farsi. Difficile ridargli
un senso, difficile pronunciarne il nome,
definirne i contorni, ma altrettanto
certo è che è necessario ridare un
nome a quel sogno che esiste da sempre
e che il Novecento, appena definitivamente
trascorso, ha scelto di
chiamare comunismo. E i nomi, le
parole, si sa, sono di competenza dei
poeti, che stanno lì apposta per “tenere
in esercizio la lingua”.
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