Cucarachas, seconda opera narrativa (dopo
      Eroina) di Lello Voce, romanzo basato sull’epopea terminale di una
      soggettività “tossica e letterata”, dal carcere che lo ospiterà ormai a
      tempo indeterminato, pone al proprio centro una questione probabilmente
      decisiva per il “tempo” che viviamo (intendo dire: per i nostri tempi,
      così paranoicamente intrisi di una metafisica del Virtuale e del suo
      Globale, spinta a simulare attorno a noi un’immobile/immobilizzante
      eternità di presente; ma anche: per il “nostro” individuale Tempo,
      quell’essere-al-mondo che storicamente e ontologicamente ci è dato, e ci
      riguarda). Questo romanzo di tanto esasperata, e visionario-apocalittica,
      e ultrarealistica, pure, fisicità risentita (l’espressione “body art”
      compare, a mo’ di ironico programma, nel titolo di uno dei capitoli
      iniziali) – ma insieme, così iratamente filosofico (dove, giusto
      all’elemento fantastico-delirante, la blatta ispanofona nominata nel
      titolo, è demandato un ruolo di riflessione e di “sragionante” paradossale
      saggezza, fra Calderón, poniamo, e Góngora – ed Erasmo – e da Collodi a
      Kafka, a Landolfi…) – si mette a fuoco, cioè (e s’incenerisce, nel gesto
      con cui si conclude), sulla già mediatica questione del “tempo reale”;
      questione centralissima oggi e critica sommamente, se coinvolge due entità
      contigue (il “tempo” e la “realtà”) e ambedue in crisi. Ciò che prova a
      fare la soggettività lucida e delirante, tossica e letterata, del
      protagonista recluso nell’inferno di carcere e cella abitati da una
      microsocietà horror – specchio esemplare di quella, macro, in libertà
      apparente e vigilata, in cui, nella “realtà”, tutti noi ci diguazziamo – è
      appunto definire l’incubo di questo tempo-reale che c’ingloba, dentro e
      fuori sbarre tangibili o mentali (dove il “dentro” è una metafora del
      “fuori”; e viceversa): in un corpo-a-corpo titanico ed “ettorico”
      (eroicamente perdente) con quanto di più destitutivo (della realtà e del
      tempo) è portato da una nozione del genere. Perché, nella “realtà” del
      vivere odierno, “tempo-reale” è nozione che definisce tutta intera una
      microfisica del corpo sociale: quella che, in modi microscopicamente
      diffusi, si basa sulla tipica legge del sorvegliare-e-punire, propria di
      ogni modernità: dal sistema, integrato o disintegrato, di un postfordismo
      neo-bracciantile, nebulosamente de-regolato, alla tele-società
      pavlovizzante che ne è generata, all’incubo del “Grande Fratello”, fino
      appunto ai vari gironi e stadii-di-coscienza di una reclusione carceraria
      che (da Genova in poi) avvolge sempre più palpabilmente il nostro stato di
      semilibertà. (E di Voce vorrei ricordare la cura di un libro+video appena
      uscito presso Shake, “Solo limoni”, versi e immagini da Genova). Dalla
      morale posta (quasi) all’inizio (“non si è mai la propria storia […] il
      tempo è fermo, immobile e ogni istante si sostituisce a quello successivo,
      annullandolo”), al delirio metafisico sul finale (“tutto ciò che è
      accaduto, è accaduto nel medesimo momento, un unico istante organico e
      compatto, infinito, che ci ha schiacciato al fondo”), per via d’una
      percezione lucido-alterata dell'”immobilità strapiombante del tutto”, fino
      all’atto conclusivo, il teatrale mettersi in corto, “in onda, a 220 volt”,
      tra la presa audio e il sistema d’alimentazione di un tv (quasi
      un’autoesecuzione su una sedia-elettrica allegorica, che il protagonista
      si infligge come ultima endovena per liberarsi dall’attimo, entrando nella
      incenerente assolutezza di una istantaneità medializzata), il libro tutto
      ruota, invettivale, attorno al fulcro di questo tempo (de)reale e
      globalmente immobile, che ci si è insediato nei nostri circuiti come una
      scimmia impalpabile. Tempo di un “vivere in moviola”, dove ognuno resta
      “eternamente e fulmineamente sempre nello stesso luogo, sempre nello
      stesso attimo” (e risorsa estrema è semmai “mettersi in stand by”, il
      flash tossico dell’autodistruzione, in attesa che scatti quell’unico
      millisecondo che ci terminerà); per una riflessione necessariamente
      degradata (e, in più punti, polifonica, poematica, carnevalizzante) sulla
      Temporalità nel suo collassamento-disfacimento, che si riconduce alla
      grande stagione del Barocco, “abbassandola” (nella nobile ispanica parlata
      della cucaracha, o invece, nella deriva punkabbestia). Ma infine, questa
      qualità di “tempo” criticamente s’interiorizza nella ragione e nel metodo
      per cui questo libro ha voluto costruirsi: tramite cioè un atto deliberato
      di autoreclusione. “Cucarachas” si definisce come “il risultato di una
      lunga performance di scrittura”: quella per cui Voce, “in tempo reale”,
      nel chiuso del suo studio (e del suo computer), commetteva sotto l’occhio
      di una webcam di raisatzoom.it la “tantalica fatica” del romanzare, per le
      più o meno istantanee connessioni di naviganti svagati.
      Cortocircuitandosi, ascetico, nella stessa materia narrata dal “suo”
      tossico; e provando, nell’immobilità dei suoi istanti di scrittura resi
      pubblici, a ripensare la letteratura come forma di una temporalità non
      immobilizzante, come realtà temporalizzata di un “farsi”. 
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