Recensione a Cucarachas. di Tommaso Ottonieri

Cucarachas, seconda opera narrativa (dopo
Eroina) di Lello Voce, romanzo basato sull’epopea terminale di una
soggettività “tossica e letterata”, dal carcere che lo ospiterà ormai a
tempo indeterminato, pone al proprio centro una questione probabilmente
decisiva per il “tempo” che viviamo (intendo dire: per i nostri tempi,
così paranoicamente intrisi di una metafisica del Virtuale e del suo
Globale, spinta a simulare attorno a noi un’immobile/immobilizzante
eternità di presente; ma anche: per il “nostro” individuale Tempo,
quell’essere-al-mondo che storicamente e ontologicamente ci è dato, e ci
riguarda). Questo romanzo di tanto esasperata, e visionario-apocalittica,
e ultrarealistica, pure, fisicità risentita (l’espressione “body art”
compare, a mo’ di ironico programma, nel titolo di uno dei capitoli
iniziali) – ma insieme, così iratamente filosofico (dove, giusto
all’elemento fantastico-delirante, la blatta ispanofona nominata nel
titolo, è demandato un ruolo di riflessione e di “sragionante” paradossale
saggezza, fra Calderón, poniamo, e Góngora – ed Erasmo – e da Collodi a
Kafka, a Landolfi…) – si mette a fuoco, cioè (e s’incenerisce, nel gesto
con cui si conclude), sulla già mediatica questione del “tempo reale”;
questione centralissima oggi e critica sommamente, se coinvolge due entità
contigue (il “tempo” e la “realtà”) e ambedue in crisi. Ciò che prova a
fare la soggettività lucida e delirante, tossica e letterata, del
protagonista recluso nell’inferno di carcere e cella abitati da una
microsocietà horror – specchio esemplare di quella, macro, in libertà
apparente e vigilata, in cui, nella “realtà”, tutti noi ci diguazziamo – è
appunto definire l’incubo di questo tempo-reale che c’ingloba, dentro e
fuori sbarre tangibili o mentali (dove il “dentro” è una metafora del
“fuori”; e viceversa): in un corpo-a-corpo titanico ed “ettorico”
(eroicamente perdente) con quanto di più destitutivo (della realtà e del
tempo) è portato da una nozione del genere. Perché, nella “realtà” del
vivere odierno, “tempo-reale” è nozione che definisce tutta intera una
microfisica del corpo sociale: quella che, in modi microscopicamente
diffusi, si basa sulla tipica legge del sorvegliare-e-punire, propria di
ogni modernità: dal sistema, integrato o disintegrato, di un postfordismo
neo-bracciantile, nebulosamente de-regolato, alla tele-società
pavlovizzante che ne è generata, all’incubo del “Grande Fratello”, fino
appunto ai vari gironi e stadii-di-coscienza di una reclusione carceraria
che (da Genova in poi) avvolge sempre più palpabilmente il nostro stato di
semilibertà. (E di Voce vorrei ricordare la cura di un libro+video appena
uscito presso Shake, “Solo limoni”, versi e immagini da Genova). Dalla
morale posta (quasi) all’inizio (“non si è mai la propria storia […] il
tempo è fermo, immobile e ogni istante si sostituisce a quello successivo,
annullandolo”), al delirio metafisico sul finale (“tutto ciò che è
accaduto, è accaduto nel medesimo momento, un unico istante organico e
compatto, infinito, che ci ha schiacciato al fondo”), per via d’una
percezione lucido-alterata dell'”immobilità strapiombante del tutto”, fino
all’atto conclusivo, il teatrale mettersi in corto, “in onda, a 220 volt”,
tra la presa audio e il sistema d’alimentazione di un tv (quasi
un’autoesecuzione su una sedia-elettrica allegorica, che il protagonista
si infligge come ultima endovena per liberarsi dall’attimo, entrando nella
incenerente assolutezza di una istantaneità medializzata), il libro tutto
ruota, invettivale, attorno al fulcro di questo tempo (de)reale e
globalmente immobile, che ci si è insediato nei nostri circuiti come una
scimmia impalpabile. Tempo di un “vivere in moviola”, dove ognuno resta
“eternamente e fulmineamente sempre nello stesso luogo, sempre nello
stesso attimo” (e risorsa estrema è semmai “mettersi in stand by”, il
flash tossico dell’autodistruzione, in attesa che scatti quell’unico
millisecondo che ci terminerà); per una riflessione necessariamente
degradata (e, in più punti, polifonica, poematica, carnevalizzante) sulla
Temporalità nel suo collassamento-disfacimento, che si riconduce alla
grande stagione del Barocco, “abbassandola” (nella nobile ispanica parlata
della cucaracha, o invece, nella deriva punkabbestia). Ma infine, questa
qualità di “tempo” criticamente s’interiorizza nella ragione e nel metodo
per cui questo libro ha voluto costruirsi: tramite cioè un atto deliberato
di autoreclusione. “Cucarachas” si definisce come “il risultato di una
lunga performance di scrittura”: quella per cui Voce, “in tempo reale”,
nel chiuso del suo studio (e del suo computer), commetteva sotto l’occhio
di una webcam di raisatzoom.it la “tantalica fatica” del romanzare, per le
più o meno istantanee connessioni di naviganti svagati.
Cortocircuitandosi, ascetico, nella stessa materia narrata dal “suo”
tossico; e provando, nell’immobilità dei suoi istanti di scrittura resi
pubblici, a ripensare la letteratura come forma di una temporalità non
immobilizzante, come realtà temporalizzata di un “farsi”.

Lello Voce – Poeta