Recensione a Cucarachas. di Tommaso Ottonieri

27 febbraio 2004 Cucarachas
Recensione a <i>Cucarachas</i>. di Tommaso Ottonieri

Cucarachas, seconda opera narrativa (dopo Eroina) di Lello Voce, romanzo basato sull’epopea terminale di una soggettività "tossica e letterata", dal carcere che lo ospiterà ormai a tempo indeterminato, pone al proprio centro una questione probabilmente decisiva per il "tempo" che viviamo (intendo dire: per i nostri tempi, così paranoicamente intrisi di una metafisica del Virtuale e del suo Globale, spinta a simulare attorno a noi un’immobile/immobilizzante eternità di presente; ma anche: per il "nostro" individuale Tempo, quell’essere-al-mondo che storicamente e ontologicamente ci è dato, e ci riguarda). Questo romanzo di tanto esasperata, e visionario-apocalittica, e ultrarealistica, pure, fisicità risentita (l’espressione "body art" compare, a mo’ di ironico programma, nel titolo di uno dei capitoli iniziali) - ma insieme, così iratamente filosofico (dove, giusto all’elemento fantastico-delirante, la blatta ispanofona nominata nel titolo, è demandato un ruolo di riflessione e di "sragionante" paradossale saggezza, fra Calderón, poniamo, e Góngora - ed Erasmo - e da Collodi a Kafka, a Landolfi…) - si mette a fuoco, cioè (e s’incenerisce, nel gesto con cui si conclude), sulla già mediatica questione del "tempo reale"; questione centralissima oggi e critica sommamente, se coinvolge due entità contigue (il "tempo" e la "realtà") e ambedue in crisi. Ciò che prova a fare la soggettività lucida e delirante, tossica e letterata, del protagonista recluso nell’inferno di carcere e cella abitati da una microsocietà horror - specchio esemplare di quella, macro, in libertà apparente e vigilata, in cui, nella "realtà", tutti noi ci diguazziamo - è appunto definire l’incubo di questo tempo-reale che c’ingloba, dentro e fuori sbarre tangibili o mentali (dove il "dentro" è una metafora del "fuori"; e viceversa): in un corpo-a-corpo titanico ed "ettorico" (eroicamente perdente) con quanto di più destitutivo (della realtà e del tempo) è portato da una nozione del genere. Perché, nella "realtà" del vivere odierno, "tempo-reale" è nozione che definisce tutta intera una microfisica del corpo sociale: quella che, in modi microscopicamente diffusi, si basa sulla tipica legge del sorvegliare-e-punire, propria di ogni modernità: dal sistema, integrato o disintegrato, di un postfordismo neo-bracciantile, nebulosamente de-regolato, alla tele-società pavlovizzante che ne è generata, all’incubo del "Grande Fratello", fino appunto ai vari gironi e stadii-di-coscienza di una reclusione carceraria che (da Genova in poi) avvolge sempre più palpabilmente il nostro stato di semilibertà. (E di Voce vorrei ricordare la cura di un libro+video appena uscito presso Shake, "Solo limoni", versi e immagini da Genova). Dalla morale posta (quasi) all’inizio ("non si è mai la propria storia […] il tempo è fermo, immobile e ogni istante si sostituisce a quello successivo, annullandolo"), al delirio metafisico sul finale ("tutto ciò che è accaduto, è accaduto nel medesimo momento, un unico istante organico e compatto, infinito, che ci ha schiacciato al fondo"), per via d’una percezione lucido-alterata dell’"immobilità strapiombante del tutto", fino all’atto conclusivo, il teatrale mettersi in corto, "in onda, a 220 volt", tra la presa audio e il sistema d’alimentazione di un tv (quasi un’autoesecuzione su una sedia-elettrica allegorica, che il protagonista si infligge come ultima endovena per liberarsi dall’attimo, entrando nella incenerente assolutezza di una istantaneità medializzata), il libro tutto ruota, invettivale, attorno al fulcro di questo tempo (de)reale e globalmente immobile, che ci si è insediato nei nostri circuiti come una scimmia impalpabile. Tempo di un "vivere in moviola", dove ognuno resta "eternamente e fulmineamente sempre nello stesso luogo, sempre nello stesso attimo" (e risorsa estrema è semmai "mettersi in stand by", il flash tossico dell’autodistruzione, in attesa che scatti quell’unico millisecondo che ci terminerà); per una riflessione necessariamente degradata (e, in più punti, polifonica, poematica, carnevalizzante) sulla Temporalità nel suo collassamento-disfacimento, che si riconduce alla grande stagione del Barocco, "abbassandola" (nella nobile ispanica parlata della cucaracha, o invece, nella deriva punkabbestia). Ma infine, questa qualità di "tempo" criticamente s’interiorizza nella ragione e nel metodo per cui questo libro ha voluto costruirsi: tramite cioè un atto deliberato di autoreclusione. "Cucarachas" si definisce come "il risultato di una lunga performance di scrittura": quella per cui Voce, "in tempo reale", nel chiuso del suo studio (e del suo computer), commetteva sotto l’occhio di una webcam di raisatzoom.it la "tantalica fatica" del romanzare, per le più o meno istantanee connessioni di naviganti svagati. Cortocircuitandosi, ascetico, nella stessa materia narrata dal "suo" tossico; e provando, nell’immobilità dei suoi istanti di scrittura resi pubblici, a ripensare la letteratura come forma di una temporalità non immobilizzante, come realtà temporalizzata di un "farsi".

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