la poesia e la guerra: indispensabile ma non sufficiente

28 novembre 2003 Letteratura e arti
la poesia e la guerra: indispensabile ma non sufficiente

«Lontano lontano si fanno la guerra. / Il sangue degli altri si sparge per terra. // Io questa mattina mi sono ferito / a un gambo di rosa, pungendomi un dito. // Succhiando quel dito, pensavo alla guerra. Oh povera gente, che triste è la terra! // Non posso giovare, non posso parlare, / non posso partire per cielo o per mare. // E se anche potessi, o genti indifese, / ho l’arabo nullo! Ho scarso l’inglese! // Potrei sotto il capo dei corpi riversi / posare un mio fitto volume di versi? // Non credo. Cessiamo la mesta ironia. / Mettiamo una maglia, che il sole va via». Sono versi di Fortini, di una delle sue Canzonette del Golfo: il Golfo è quello Persico e la guerra a cui si allude è quella che ormai va definita la Prima Guerra del Golfo… E sono versi che esprimono bene il sentimento ambivalente che dilania il cuore di qualsiasi poeta che si ponga il problema del "Che fare" di fronte alla guerra. L’impotenza che stringe la gola e, insieme, la voglia di scrivere, di smascherare… La necessità dell’ironia, della ’distanza’, l’urgenza di dire, senza rinunciare ad agire. Come se, in certi momenti, scrivere poesie fosse indispensabile, ma non sufficiente e quasi impossibile.
Nel frattempo un surreale Settimo Cavalleria, trasformato in un’orda di cingolati, avanza nel deserto agli ordini di un Custer postmoderno che sbandiera la Little Big Horn della legalità internazionale come fosse una vittoria e vengono bruciate le tappe di questa post-Corsa verso una post-Frontiera: dopo l’Ovest, è la volta dell’Est. C’è già chi è pronto a fare la ’Gara dei carri’, per accaparrarsi il meglio dopo una strana guerra, che, se sarà vinta in pochi giorni, darà ragione a chi la giudicava inutile, se durerà a lungo, conforterà le paure di chi la temeva nefasta per tutti.
Ma intanto da noi (nella patria della belligeranza-non belligerante) qualcosa di buono succede, sin nella mia leghista Treviso. Migliaia di studenti - iridati e pacifisti -invadono la città, di colpo le cambiano fisionomia e colonna sonora, la trasformano, a colpi di sorrisi e giocoleria, in una città normale, dove puoi permetterti persino il lusso di immaginare un mondo migliore. Mentre la gente guarda stupefatta e - come i poeti di fronte alla guerra - non sa più che dire. Confuso tra i miei studenti mi domandavo se alcuni di loro, rifiutando questa guerra di ’liberazione’ dell’Irak, avessero in mente il Coro dell’Adelchi in cui Manzoni, irridendo i sogni dei "servi" italiani che attendevano la libertà dai Franchi, sostiene che i nuovi conquistatori non hanno certo abbandonato le loro case per questo... Perché un poeta - questo almeno è sicuro - in certi momenti non può permettersi il lusso di sognare. Piuttosto deve sospettare, per aiutare tutti gli altri a continuare a sognare, ad allevare l’utopia e a gettarla sul viso del reale.

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