Villadrome

20 novembre 2003 Letteratura e arti
Villadrome

È lo ’scomparso’ per eccellenza della Storia della nostra Letteratura del Secondo Novecento. Messo ai margini praticamente da tutti, ostentamente ignorato, è, in realtà, uno dei nostri massimi autori in versi. Ma è anche traduttore - dell’Odissea ha dato un’insuperata versione nel 64 - tanto dal greco quanto dall’accadico e dal semitico, artista egli stesso e critico d’arte, precursore dell’action painting e amico di Duchamp, che lo soprannominò Villadrome. Ha scritto poesie in italiano, in latino, in portoghese, e in un fantasmagorico francese, tanto geniale da meritargli oltralpe molto più interesse e spazio di quanto non gliene abbia riservato l’Italia. E’ Emilio Villa ed ha ragione Aldo Tagliaferri, l’unico dei critici italiani a aver dedicato tanto tempo, passione, competenza nello studio della sua opera e nel tentativo di portarla alla luce, quando sostiene che la poesia italiana conosce male se stessa se, fino ad oggi, ha potuto nascondersi l’opera di un autore come Villa.
Ctonio e sperimentale, cosmogonico e macaronico, primitivo e proiettato come una meteora nel futuro delle lingue, amaro, ilare, griot coltissimo di storie di animali, uomini, culture, dialettale e plurilinguista, ermeneutico e carnevalesco, Villa ha preceduto praticamente tutto quello che conta nella nostra poesia dagli 40-50 in avanti, in altera solitudine, in una marginalità che fu anche scelta, quasi dissipazione rituale (e duchampiana), un immolare le parole al Dio panico del soffio e delle Lingue.
Oggi Villa vive poveramente a Milano, più inedito che mai. Che ancora oggi, in questa nostra Italia in cui si pubblica praticamente di tutto e in cui le rotative sarebbero leste a divorare i versi di questa o quella velina, nessuno abbia avuto ancora il coraggio di pubblicarne le opere complete, è più di uno scandalo, è la prova della superficialità assoluta e della delittuosa incompetenza di tanti nostri editor e, insieme, della capacità che avrebbe Villa nell’indurci a riscrivere alcuni dei capitoli fondamentali della nostra recente Storia Letteraria, se solo ci fermassimo ad ascoltarlo. E questo, forse, fa paura a qualcuno. Che ciò accada senza provocarci imbarazzo alcuno è la dimostrazione che aveva ragione lui quando, in un testo del 1943, guardando avanti, a quello che ci aspettava, scriveva: «e che siamo rimasti senza ordine e senza rivoluzione, / magnanimi e caduchi, e sembra bello / aver sbagliato in molti, in tutti».

Altro in Letteratura e arti

Altro in Teoria e critica