Una ragione per non morire: Libidissi di George Klein

1 maggio 2004 Articoli e recensioni
Una ragione per non morire: <i>Libidissi</i> di George Klein

E’ un oggetto da maneggiare con cura, Libidissi, romanzo d’esordio del giovane autore tedesco George Klein, qualcosa che ti cresce tra le mani, divenendo sempre più complesso ed avvincente, anche se - almeno a me è parso evidente - ciò che importa, paradossalmente, non è il dipanarsi di una storia, ma l’analisi della sua strutturazione, la certezza che ciò che avverrà, non sarà mai ciò che il romanziere e il lettore si aspetterebbero che accada, ma sempre qualcosa a lato, che evita il colpo di scena, slittando in una zona grigia dove gli eventi si urtano soffici e ciechi, senza riconoscersi, ma con una sorda, strisciante crudeltà.
La vicenda in sé è, infatti, scarna, quasi scheletrica e narra di un singolare agente segreto tedesco, tale Spaik, che vive in una metropoli mediorientale, all’incrocio tra medioevo e futuro, e che sta per essere ucciso - senza che ne venga chiarita la ragione - da una coppia di suoi colleghi, gemelli, o piuttosto cloni che, in teoria, dovrebbero invece limitarsi a sostituirlo. Avvertito del pericolo dal deus ex machina anonimo di un vetusto impianto di posta pneumatica, Spaik cerca di individuare i suoi killer, dando vita a una trama di inseguimenti e contro-inseguimenti, che non riusciranno a raggiungere il loro obbiettivo che un attimo prima dello spirare della vicenda. Ad aiutarlo solo Donnetta, una bambina zoppa che gli usi locali gli hanno affidato poiché l’uomo col quale viveva, uno straccivendolo, è morto davanti alla sua abitazione.
Questa scabra storia viene narrata con un continuo alternarsi delle focalizzazioni, tra la preda (Spaik) e i suoi cacciatori, un succedersi di punti di vista opposti, che non si riconoscono nemmeno quando si incrociano, impedendo al romanzo di avviarsi sulla china scivolosa della vicenda d’azione e trattenendolo nella zona sospesa in cui molto accade, senza che nulla succeda. Alla fine, ciò che vince è il vecchio, domestico, ben noto istinto di sopravvivenza. Sopravvive chi ha una ragione in più per farlo. Una ragione altra. Sopravvive chi, guardando l’altro, non si limita a rispecchiare se stesso, ma riconosce le diversità ed accetta di confrontarsi con le proprie contraddizioni.
A narrare questa storia, come sottolinea nell’interessante Nota il traduttore Robin Benatti, autore di una versione efficace e coraggiosa, è una lingua altrettanto particolare, ricca di echi, una prosa poetica che fa del calembour uno strumento per creare atmosfere, in omaggio (postmoderno) ad una poetica della «lucida ambiguità» che unisce le scelte narrative alla lingua adottata per narrarle: «La poetica della "lucida ambiguità" - come nota Benatti - si dispiega nell’errare dei punti di vista calamitati dallo sfavillare dei dettagli: il collier di rame e transistor, il cigolio delle assi, la conduttura della posta pneumatica che collega soltanto due piani (…) Le elisioni, la costruzione della frase, le espressioni idiomatiche rovesciate come un guanto di pelle nera, gli echi, le simmetrie e le dissimmetrie rappresentano le retoriche del raccontare alla Klein». Lavoro difficile, dunque, questo della versione di Libidissi, da cui, come sottolinea Benatti, «il traduttore esce malmenato a sangue (…). Inutile essere dei brav’uomini fedeli alla Lettera, per avvincere il lettore è meglio restituire i colpi di santa ragione, a forza di altri inganni».
Certo, poi Libidissi è - almeno apparentemente - una spy story, ma il ’genere’ è, in questo caso, un pretesto, come una struttura sotterranea che fa da collante, un codice d’emergenza che centrifuga ciò che altrimenti sfuggirebbe dall’orbita della diegesi, non a caso Benatti, nella sua Nota, definisce Libidissi un «romanzo meticcio». E ciò che più colpisce è, poi, che dietro questo romanzo di ’genere’ ci sia un’idea chiara ed esplicita di come dovrebbe essere un romanzo in senso generale, che ne venga fuori esplicita una scommessa di poetica giocata su più tavoli, dalla lingua alla strutturazione della storia, un pensiero forte, che non è possibile recintare dietro la palizzata di un ’genere’.
E anche se non mancano alcuni colpi a vuoto, anche se scomodare Kafka - e certamente Burroughs - potrà sembrare a qualcuno magari fuori luogo (a me verrebbe in mente piuttosto certa asfissia degli orizzonti alla Nick Cave) Libidissi è un romanzo che lascia un segno. Visibile. Un romanzo che fa riflettere. Sull’uomo e sui romanzi che scrive. Su come li scrive e sul perché continui a farlo, al di là delle storie che ha da narrare. E non è poco.

Georg Klein
Libidissi
Traduzione di Robin Benatti
Marsilio Black

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