Un ponte tra poesia e rap di Paolo Coltro

13 gennaio 2005 05. Fast Blood
<i>Un ponte tra poesia e rap </i> di Paolo Coltro

Ti capita per le mani questo cd, e finchè non ti capita per le orecchie non ti serve. Si chiama «Fastblood», naturalmente con un tocco di rosso, è la voce di Lello Voce, e questa è l’unica tautologia di una selva di parole, di un lungo compianto, di un sermone accorato che è poco sermone e poco accorato. «Sentilo in macchina come un cd qualsiasi» ti dice l’autore-cantore: perché qui c’è musica a far da talamo alle parole del poeta. Appunto, è poesia: ma quella di oggi, nella forma di oggi, con i temi dell’oggi. Se la ascoltate in macchina, non vi resta nelle orecchie un motivetto, quattro note insieme: vi resta qualche grumo di parole assassine, si coagulano versi scarnificati, vi fanno pensare, magari vi tocca fermarvi a pensare. Questo è un poema, perché ha una sua unità e compiutezza, e Lello Voce l’ha battezzato con un termine desueto: le quattro canzoni (alla Leopardi) sono lai: Lamentazioni, espressione del dolore, lai del ragionare. C’è un continuum di sentimenti dolenti dove la rassegnazione è bandita, e affiora la rabbia: lo sguardo sulla condizione umana, individuale e soprattutto sociale, è come una lama, taglia di netto, ferisce, fa sgorgare il sangue vivo della consapevolezza. Niente di remissivo: i lai sono denuncia, fotografia brutale, spogliati del dolciastro ti sbattono nel cervello l’amaro della contemporaneità. Poema, dunque. Oppure canto, anzi cantico: dove speranza e serenità non hanno luogo, perché questo è il cantico del male che c’è, non del bene che ci sarà. E la speranza, casomai, non è quella della quiete, piuttosto quella della rivolta: contro un mondo fatto così, contro il potere che soffoca e impone, fino ad imporre di vivere bene (?) ma ad occhi chiusi. I lai lenti sono una ninna nanna della disperazione, un raccogliersi in un lucido pessimismo: «Così non va, così non dura, cosi finisce male, male». Nello sconforto c’è già il germe della reazione, forse della rivoluzione, il male è talmente schiacciante, evidente, totale da generare esso stesso la forza di negarlo. Ma il proclama non è «aux armes, citoyens», la cifra resta quella del dolore, ma senza sopportazione. Dal pessimismo si dipana un’idea, più idee: che hanno la forma fisica dell’opposizione anche violenta, del combattimento, dell’antagonismo. Senza slogan, senza squilli di tromba che suonano l’attacco, sull’aria del compianto, si direbbe con la forza generata dal dolore e dalla disperazione. Ma piano, come una marea che monta, assolutamente priva di esaltazione, di furor guerresco. Così sono le parole: un’eloquenza scarna, proletaria, parole scelte nella semplicità, qualche volta perfino (suppongo apposta) nel luogo comune sia poetico che verbale. Parole con una forza interiore, una dopo l’altra come gocce che scavano la pietra, assemblate con pessimistica felicità: «il cuore calvo», «autismo acre», «buio a cinque stelle». L’analisi incalza, si srotola per immagini, a me viene di colpo in mente Hyeronimus Bosch: questa è la fotografia del mondo, come Bosch dipingeva l’inferno: «mani senza braccia», «gonne senza gambe». Mille scene di sofferenza, di sopruso, di violenza, un grande quadro dove l’insieme è data dai cento episodi, dagli uomini piccoli martoriati in mille modi, e dove il fondo è nero. «Lìnkati alla finestra del dolore» esorta Voce, guarda oltre «una vita furtivamente nera». Tutto è nero, come uno dei lai canta: nero potere, nero sopraffazione, nero morte nero come il buio che ha chiuso gli occhi di Giullani ammazzato. Nero come la sorte di questo potere, prima o poi: e il proletario, o semplicemente l’uomo incazzato viene percorso da brividi di superomismo, un mix di Nietzsche e Marx, uomo eroico e nichiista, ma non tanto da non ribellarsi. Insomma, il cantico è contemporaneo, diventa ode civile irosa e dolente, permeata dello sporco della società, intrisa dello schifo: se lo porta addosso come un nastro trasportatore delle ingiustizie, delle atrocità, dei misfatti. E questo carico infinitamente pesante viene spinto a singhiozzo, a scatti, quando si può, quando c’è la forza di spingerlo verso il lavacro delle idee, e degli uomini. Ecco la mesta invettiva: questo è il tono dove la rabbia e lo sdegno affiorano come polle di eruzione, ma poi sembra che vengano di nuovo inghiottite nella melma, che pur ribolle e le risputa fuori. E se la cifra del pessimismo è costante, si tratta di un pessimismo in fondo negato: la condizione umana non deve essere decisa sempre da qualcun altro. C’è una quieta trasformazione del dolore in rabbia, e che sia quieta è una novità. Come è una novità questa della poesia sentita e non letta: diventa teatrale, gli occhi non seguono le parole, sono più liberi di immaginare. Le musiche originali sono di Frank Nemola, e sono appunto un talamo, una coltre sulla quale le parole si adagiano e si riposano nella loro cattiveria. Giusto dire che hanno suonato Luigi Cinque (saxsoprano), Paolo Fresu (tromba), Michael Gross (tromba, flicorno), Luca Sanzò (viola). Ma, non si offendano i musicisti, è impossibile ascoltare «solo» la musica. Questo rap ha parole che pesano, ti prendono, ti obbligano a pensare. Questo rap non è fatto per riempire di niente i buchi della vita, è fatto per collegare sentimenti e cervelli. Poesia, se vogliamo chiamarla così. Ma ci sembra meno del dovuto: neanche per sbaglio ci sono parole tipo: alba cielo uccellini rugiada. Trovate invece nebbia feccia pericolo sangue. Allora: voce di uno sconfitto, Voce? No: brace, guizzo di fiamma, «qualcosa che brucia», direbbe Gianfranco Bettini. Che s’alza e si sopisce, che s’allarga nel chiarore certo di una denuncia distesa, larga, totale, planetaria. Da meditare sulla propria pelle.

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1 Messaggio

  • > Un ponte tra poesia e rap di Paolo Coltro 17 marzo 2005 14:41, di bimbogiulemano

    Ma cosa intende per "rap"? Parlare, recitare o declamare invece di cantare su una base musicale non è rap, è un’altra cosa. Non sono un purista ma non confondiamo i termini, come dire: Pertini e La Russa… Mi sa che non ne mastica molto in materia, quindi perché perseguire accostamenti forzati con una cultura che va oltre la sua percezione? Non voglio con questo denigrare il lavoro di Lello Voce, peraltro apprezzabile nella ricerca di originalita di una propria forma espressiva, ma, ribadisco, il rap è altra cosa.

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