Umberto Eco

21 novembre 2003 Interviste e dialoghi
Umberto Eco

Quando siamo sbarcati sull’isola di S. Giorgio, a Venezia, io ed Alfonso eravamo pronti a tutto. Perché sapevamo a cosa stavamo andando incontro. Alfonso è un autore della RAI e lì c’era, come me, per incontrare Umberto Eco. Ci avevano assicurato che, anche se l’autore di Baudolino non aveva intenzione di concedere interviste ad alcuno, per noi avrebbe fatto eccezione. Con Eco Alfonso si è laureato e a me, tra una poesia e l’altra, non era la prima volta che capitava la fortuna di incontrarlo. Se dico che eravamo pronti a tutto è perché intervistare Eco in un luogo dove ci sono altri cento tra giornalisti e fotografi fieramente intenzionati a fare la stessa cosa può diventare qualcosa di simile a un percorso di guerra. E non per colpa di Eco, naturalmente, che è persona affabile e disponibilissima…
Lo abbiamo intercettato prima di pranzo, abbiamo concordato un incontro a forchette deposte, mentre Eco veniva sommerso da un oceano di saluti, richieste fotografiche e cotillon vari. Poi ci siamo guardati negli occhi e abbiamo incrociato le dita. Infine il Professore è arrivato da noi, scotendosi dal pastrano un codazzo di colleghi…
Il set era blindato. Sala separata, porta chiusa. E così per qualche minuto siamo rimasti soli con lui e lì, quasi rapiti da una pace sovrumana, non ci siamo più contenuti e ci è scappato di consolare il Professore, ormai un tantino tediato e affaticato da pedinamenti e appostamenti che non si erano interrotti nemmeno nella pausa per una sigaretta tra il dolce e il caffè, con un consiglio forse un po’ irrispettoso. Faccia come Bin Laden, si procuri dei sosia e sfugga all’assedio. Lui ci ha riso su e con pazienza si è lasciato ’microfonare’ arrendendosi al nostro di assedio con un sorriso arguto che ci ha scatenato miliardi di sensi di colpa.
Nel frattempo, con discrezione, prima l’uno poi l’altro dei colleghi rimasti fuori hanno iniziato a scivolar dentro. Le nostre difese crollavano, la stanza si riempiva sempre più. Ci siamo barricati dietro l’estrema difesa di tecnici e telecamere e abbiamo iniziato. Dal suo ultimo libro, Sulla letteratura, edizioni Bompiani, una collezione di saggi critico-letterari, come sempre raffinatissimi ed arguti. La prima domanda è insieme la più prevedibile e la più difficile.
Nel volume la risposta a questa domanda ha richiesto circa 25 pagine e quindi non so proprio se mi sarà possibile rispondere brevemente. Limitiamoci alla narrativa. A che serve la narrativa? Nel mio testo polemizzavo contro certe ideologie dell’ipertesto che oggi circolano con i vari giochi su Internet, o con CD Rom, per cui uno può rifarsi le storie liberamente come vuole. E’ un bellissimo esercizio, tanto quanto fare le parole crociate, ma la vera funzione della narrativa è di essere di fronte a personaggi che sono sottoposti ad un destino che nessuno può modificare. Questa è una grande lezione, una grande educazione all’accettazione del destino, se noi potessimo modificare tutte le storie di questo mondo e far sposare Lucia Mondella con l’Innominato e cose del genere, forse ci divertiremmo come pazzi, ma avremmo perduto la vera funzione della grande narrativa che ci fa fare i conti con la morte.
Il tempo passa, ma la letteratura - che pure ci fa fare i conti con la morte - non muore, piuttosto muta, cambiando pelle, rinnovandosi, sperimentando. Cos’è la letteratura sperimentale e che ne è oggi ?
Se qualcuno rispondesse sul serio a questa domanda sarebbe un passatista. Se lei ci pensa bene, ogni forma di letteratura in ogni secolo è sperimentale, quando i poeti Siciliani si mettono a usare una nuova lingua, o quando Dante decide di utilizzare la ’terza rima’, entrambi stanno facendo sperimentazione letteraria. La sperimentazione letteraria, insomma, è quella cosa che fino a cinque minuti prima nessuno sapeva cosa fosse. Poi viene assorbita. Nella storia della letteratura del Ventesimo secolo, ad esempio, il monologo interiore all’inizio pareva inaccettabile, poi è divenuto qualcosa che usa anche un narratore commerciale e che il pubblico accetta. Quindi la sperimentazione non sarà più nel monologo interiore, ma in nuovi tentativi. Quali siano questi nuovi tentativi non sappiamo e, per quanto mi riguarda, l’età mi autorizza ad ignorarlo.
Lei riprende sovente la polemica con un certo tipo di critica letteraria ’impressionista’, desiderante, che, prescindendo dal testo analizzato si abbandona al piacere di letture in cui il ruolo dell’oggetto letterario analizzato è a volte addirittura un pretesto, un dato secondario…
Sono forme di pigrizia. Ogni critica seria, ben fatta, adopera degli strumenti molto rigorosi per cercare di spiegare com’è che un testo funziona. Se si legge il Convivio di Dante ci si troverà davanti a un signore che molto seriamente adopera argomenti anche filosofici per cercare di spiegare perché le sue Canzoni possano essere lette così, piuttosto che cosà. Negli ultimi tempi, forse è una forma di perversione giornalistica perché è molto facile scrivere le cose che adesso dirò in due parole guadagnandoci il prezzo di un articolo senza lavorare troppo, si è ironizzato su questi sforzi di lavorare ’scientificamente’ sul testo, azzardando addirittura che con questo si uccide il piacere della lettura. Io nella presentazione della mia traduzione di Sylvie De Nerval ho ricordato che per quaranta anni ho applicato temi di analisi rigorosissimi a questo testo e ogni volta lo rileggo come se fosse la prima volta, per cui al proposito avevo coniato lo slogan ’ anche i ginecologi si innamorano ’, cioè passano la vita a studiare scientificamente una certa cos,a ma poi quando hanno l’incontro magico con una donna è come se fosse la prima volta. Il volere evitare quest’attenzione critica ai testi porta di solito alla critica orgasmica, non orgiastica, che sarebbe ancora una cosa seria, ma proprio ’orgasmica’, cioè il critico è semplicemente uno che racconta il piacere intenso che ha provato nel leggere un testo. E’ una pagina di diario personale, che può essere interessante quando il critico scrive bene, pochissimo interessante quando scrive male, ma non aiuta gli altri a capire un testo, è il resoconto del perché il testo è piaciuto a quel signore lì e questo mi pare un esercizio di carattere secondario che non consiglierei ai giovani.
Lei ha recentemente inaugurato a Bologna un master per l’editoria. L’editing è un punto dolente della attuale situazione letteraria. Chi dice che se ne fa troppo, chi troppo poco, chi ne lamenta l’inadeguatezza. Qual è il suo parere al proposito?
L’editing è un’arte. Un bravo editor può o deve rimanere più di un anno su un manoscritto, sia che si tratti di una traduzione che di un testo originale, anche su un testo di un autore celebre e affermato, per controllare tutto, perché anche l’autore celebre può aver commesso un errore, può aver sbagliato un verbo, o la punteggiatura, può essere incorso in un lapsus. L’editor, specie se americano, è quello che controlla tutto, che, se legge un testo che dice ’ ci mise sei ore a fare seicento chilometri da Milano a Roma’ , va sull’enciclopedia e controlla quanti chilometri ci sono tra Milano e Roma. Bene, quest’arte in Italia è sempre meno coltivata, abbiamo solo la consolazione che probabilmente è peggiore in Francia ed è peggiore in Ghana, ma non vorrei essere politically uncorrect. Nel nostro Master per redattori editoriali abbiamo dato un’importanza enorme all’editing che, ripeto, è fatto di arte, di conoscenza, di pazienza, di attenzione, di creatività e quindi ci sono lezioni, lezioni e lezioni, non tanto teoriche, quanto pratiche, si lavora sui testi, ci sono utilissimi molti volumi pubblicati da editori anche illustri. Basta prenderli e scoprire tutti gli errori che ci sono per imparare a fare l’editor
Da un po’ di tempo, dopo anni di silenzio, pare che gli intellettuali e gli artisti stiano tornando a dare qualche timido segno di voler intervenire nel dibattito politico e nella polemica civile. Qual è il parere di uno studioso come lei che, quando è stato è il caso di parlare, non si è certo fatto pregare? Io credo che ci si aspetti dagli intellettuali molto di più di quello che possono e che debbono dare. In momenti in cui si ritiene che l’andamento delle cose politiche vada criticato questo è un dovere di tutti i cittadini. Ora, se io apro i giornali vedo molti intellettuali che fanno i lori interventi e prendono le loro posizioni e altri che non gliene importa niente, come mai gliene è importato, e altri ancora che accettano un vantaggioso accordo col potere. Ma non credo che siamo in un periodo particolarmente triste da questo punto di vista. Anzi ho l’impressione che gli intellettuali siano stati più zitti al tempo del delitto Matteotti che oggi.
H. M. Enzensberger vuole provocatoriamente corredare i libri con dei segnali tipo le forchette delle guide per ristoranti, in modo da far pagare in più la letteratura migliore… A me vengono i brividi, che ne pensa lei?
Non mi pare realizzabile, perché mentre coi ristoranti si sa che il caviale costa più del salame e che quindi un ristorante che fa tagliolini al caviale deve costare di più di uno che fa panini con l’hamburger, nel campo della letteratura chi stabilisce qual è la cosa e di maggior qualità e di maggior richiesta? Se abbiamo un pubblico che vuole di più i romanzi di Stephen King, secondo me, bisognerebbe far pagare più coloro che leggono Stephen King, in modo da diminuire i prezzi dei volumi di poesia che fatalmente saranno richiesti da un minor numero di persone. Oppure pensi a un editore all’inizio del secolo che giudicando la qualità massima D’Annunzio faceva pagare 10 i libri di D’Annunzio e faceva pagare 3 Italo Svevo, perché si pensava che Italo Svevo scrivesse ’male’, mentre D’Annunzio scriveva bene e quindi chi è che stabilisce queste differenze di prezzo? Facendo così la gente avrebbe accettato l’idea che D’Annunzio era un grande artista, ciò che in realtà è indiscutibile, e che invece Svevo costava poco perché non valeva niente. Siccome costava come un narratore di amore e passione ci sarebbe stata di nuovo una gran confusione sulla classifica dei valori: perché Svevo doveva costare poco tanto quanto Carolina Invernizio? E’ un problema che si pone. Io capovolgerei. Farei costare poco la letteratura di qualità, moltissimo la letteratura di intrattenimento. Vuoi divertirti? Paga…
Che aggiungere di più…?

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2 Messaggi del forum

  • Anche i grandi intellettuali, talvolta, dicono sciocchezze. 28 ottobre 2009 22:55, di Giovanni Jonvalli

    Onestamente mi pare che sull’ultimo punto Eco scivoli su una buccia di banana pressoché fatale.

    Se King "vende" milioni di copie, non per questo la sua letteratura è peggiore di quella di altri che vendono meno, magari a ragione.

    Lo stesso Eco, che ha sfornato un bestseller come "Il nome della rosa", vorrebbe forse sostenere, oggi, che si tratta del peggiore dei suoi libri, solo perché è quello che ha venduto indubitabilmente di più?

    O non è forse più probabile che i suoi romanzi successivi, da "Il pendolo di Focault" a "L’isola del giorno prima" fossero semplicemente meno riusciti?

    Chi decide cosa è bello? Chi decreta la qualità dell’arte?

    Di certo non i critici, troppo impegnati a mostrare l’un l’altro la ruota della propria cultura, la misura della propria capacità di cogliere collegamenti tanto sottili da non essere, spesso, neppure nella mente dell’autore.

    Il critico è solo un lettore con un megafono.

    E nemmeno può giudicare il proprio lavoro l’autore giacché, come sostiene lo stesso Eco, una volta che un’opera è compiuta cessa di appartenere a chi l’ha prodotta, e vive di vita propria.

    In ultima analisi l’unico giudice è il pubblico, che se premia King avrà le sue (ottime) ragioni, con le quali Eco può essere in disaccordo, a patto però di conoscere, bene, l’argomento di cui discute.

    Altrimenti è solo snobismo da quattro soldi.

    Sulla proposta di far pagare di più la letteratura che fa divertire cosa dire che non sia troppo crudele verso un autore che amo, quale Eco è?

    Se applicassimo lo stesso concetto dovremmo far pagare moltissimo Michael Jackson e praticamente regalare Berio. Col prevedibile risultato che i patiti di Berio rimarrebbero una sparuta minoranza.

    Con qualche ragione, oserei aggiungere.

  • I lettori che leggono fedelmente Stephen King, e che comprano a caro prezzo i suoi best sellers (i romanzi di King, sebbene il target a cui sono destinati) potrebbero;) essere gli stessi che leggono altrettanto fedelmente e costantemente Umberto Eco e volumi di poesia; una lettura non esclude le altre, soprattutto qualitativamente, nonostante si tratti di "letteratura popolare"
    -_-

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