Tremate, tremate, le Liale son tornate!
Parlare di poesia ’sperimentale’, oggi, in Italia, rischia d’essere, per certi versi, difficile. E’ l’Italia letteraria del nuovo capolavoro mensile, l’Italia in cui gli ottimisti di ieri diventano gli apocalittici di oggi, anche se si tratta solo di un’apocalisse privata, con le finestre ben serrate sul mondo, l’apocalisse del proprio ombelico. Altro che ’sperimentazione’…
A proposito di poesia ci sono poi esempi stupefacenti di barbarie critica, come quelli di chi non prova alcun pudore a sbeffeggiare l’avversario dandogli del poveraccio, solo perché non ha ancora pubblicato con Mondadori. Ma la nostra è anche l’Italia nella quale si può leggere sulla quarta di copertina delle poesie di Gatto, pubblicata da una prestigiosa editrice, che il poeta «ha saputo attraversare movimenti e tendenze d’avanguardia (Gatto?) come l’ermetismo (sic!)». E nessuno ci trova nulla da dire. Intanto si è diffusa un’incredibile, anacronistica, ostinazione nell’esercizio di una sorta di calunnia critica nei confronti del Gruppo 63 e più in generale della sperimentazione poetica, che non può non far tornare in mente certi politici berlusconidi che si sono ritagliati un posto nella politica italiana gridando al pericolo comunista proprio all’indomani del crollo del Muro. Ma tant’è. Si afferma la novità di neo-simbolismi, neo-orfismi, se va bene di neo-espressionismi, legittimandolo con un: dalli all’avanguardista! buono più o meno per ogni stagione, dai primi anni del Novecento a dopodomani. Per farlo, vanno bene categorie critiche prêt à porter, che trovano nell’ineffabilità di turno l’uscita di sicurezza che permette loro di farla franca e di ottenere l’attenzione che inevitabilmente si accorda ad ogni falso allarme.
A farne le spese sono le molteplici esperienze che hanno il coraggio di rischiare strade nuove, di avvicinare l’Italia all’Europa, alla faccia di chi si ostina a restare al di qua di Chiasso, per amministrare - verso stanco, dopo verso inutile -i poveri privilegi che tutto ciò garantisce. Nel frattempo, antologia dopo antologia, si cerca di far spazio a ’canoni’ impossibili, in cui si spazza via quanto di meglio l’Italia ha prodotto negli ultimi anni, per far spazio a se stessi, ai propri sodali, magari alle numerose covate di neo-neo-epigoni del verso libero, la cui fedeltà alla linea è assicurata dalla promessa di qualche riga recensoria sulla stampa. Da una parte c’è, dunque, un consistente nucleo di autori impegnati nella sperimentazione di forme nuove, che a volte esulano dallo stesso libro, che inventano ogni giorno nuova poesia, sia scritta che detta ad alta voce, ma che hanno poco spazio nei canali ufficiali, dall’altra frotte di nipotini del déjà-vu, che si affidano alla deriva di poetiche datate, in cui l’io - quell’asparagone dell’io, come lo chiamava Gadda - torna a fare la parte del leone, poetini in punta di sonetto, un po’ anacronistici, che però l’editoria mainstream ed i suoi impiegati su carta e in Rete non mancano di coccolare… Ma che dicono di tutto questo i poeti ’sperimentali’, quelli ai quali non è concesso spesso parlare?
Ad andarci giù più duro di tutti è Aldo Nove « Credo che il problema non sia il ritorno all’io. E’ che è un tipo di io inconsistente come la poetica che lo sorregge, quella di un certo mainstream autoreferenziale e asfittico che ha il suo centro di potere editoriale in figure mediocri come Cucchi». Più conciliante il parere di Caliceti, secondo cui « l’arcipelago della poesia in Italia è molto più frastagliato rispetto a un dualismo così frontale. Penso a un poeta come De Angelis, in particolare al suo ultimo libro, che mi pare uno dei migliori usciti negli ultimi anni, e mi chiedo dove si pone. D’altra parte, mi pare che ci siano cose che vale la pena di segnalare. Penso al Fondo Villa, di Reggio Emilia. De Angelis, Villa, a che categoria appartengono?» Molto articolato è anche il parere di Inglese « Io credo che un discorso sulla "poesia sperimentale" sia interamente ancora da fare, per quanto riguarda il panorama italiano dagli anni Novanta fino ad oggi. La categoria designa un "nucleo consistente" di autori, ma questo nucleo si muove in forma sparpagliata e dialogante, senza fare gruppo compatto. Vi è però un’indubbia "aria di famiglia" che lega tra loro una serie di poeti che hanno esordito negli anni Novanta. Che cosa ci accomuna? Un assunto generale: il linguaggio poetico è un linguaggio di crisi, come critico è, per ragioni storiche, il nostro rapporto di individui alla realtà. È questa crisi inaggirabile che orienta il nostro atteggiamento di inquietudine e ricerca nei confronti delle forme poetiche (scritte, orali, performative). E tale crisi, spesso, né la narrativa né il cinema sanno esprimere con la medesima radicalità della poesia.» Rosaria Lo Russo è tagliente: « La cosiddetta grande editoria non si aggiorna. In tutto il mondo si producono cd di poesia, o audiobook, qui in Italia è ancora merce rara. C’è una mentalità retriva, pavida. La poesia diventa un prodotto tranquillino e digeribile, o, se osa l’eversione dei linguaggi, viene crocianamente considerata non-poesia.» Ancora più duro il giudizio di Ottonieri: « Il problema è la melassa della mediocrità travestita da indicibile, in cui neofiti ed entusiasti della poesia-senza-aggettivi sono indotti a impastoiarsi. E’ il kitsch dell’impoetamento. Questa mediocrità, che porta in sé l’alibi di una medietà semmai "comunicativa", o l’illusione della fedeltà ad una tradizione all’infinito perpetuante se stessa e i suoi osservanti, diviene occasione di autoaffermazione più o meno vicendevole (in particolare presso la sua cialtrona casta sacerdotale) ma è compito della poesia, invece, dare voce all’impossibile». Sara Ventroni, successiva di una generazione, focalizza il problema storicamente: «Il punto mi pare questo: da una parte la vitalità della poesia - il suo esistere come forza, non come lingua morta - dall’altra la sua assenza, quasi totale, dall’orizzonte degli investimenti dell’editoria. Ancora una volta stiamo parlando - come si ritrovarono a fare intellettuali, poeti, scrittori, nel secondo dopoguerra - di cos’altro resti da dire quando la poesia viene ridotta ad un solo canone e quindi di una pericolosa reductio ad unum di un macro-genere (la poesia) ad un micro-genere (la lirica) che spesso tende ad escludere altri linguaggi e a dirsi solo sottovoce, come se la poesia non dovesse svegliare la realtà, soprattutto quando dorme così bene». Lisa, stessa generazione di Ventroni, rincara la dose: «L’editoria impone un approccio user-friendly; esige un prodotto sciatto e omologato, che blandisca il conformismo proponendo una deriva tardo-romantica fondata sull’elegia dei sentimenti: una poesia narcotica e narcisistica».
E’ evidente, però, che questo ritorno della Tradizione vuole passare per la vera novità: l’ossimoro è implicito e capita così di scoprire che, a distanza di quarant’anni, l’obbiettivo è ancora il Gruppo 63. C’è chi recentemente ha gridato alla Restaurazione, senza specificare, però, chi fossero i Restauratori. Io sento, piuttosto, un grido malagurante: tremate, tremate le Liale son tornate!
«Magari fosse tornata Liala - è la risposta di Nove - che non ha mai preteso di essere letteratura alta e faceva il suo lavoro artigianale di intrattenimento! Oggi le Liale sono consacrate. Quindi, più che una restaurazione, è un’instaurazione (di parametri rovesciati)». « Le Liale non sono ingenue signorine però - sottolinea Lo Russo - la poesia veicolata oggi come Vera è decadente (in senso cosmetico: è una vecchia signora che ripara i danni del tempo a furia di interventi "estetici" che rivelano la loro patinata, viscidissima falsità). Si sta restaurando la poesia neutrale, che poi neutrale non è, ma benpensante e melensa. Penso ai vari Cucchi, Rondoni, ai bianchi, pallidi einaudianini». Per Niva Lorenzini, storica della letteratura, c’è poco da stare allegri. « Ritorno alla Tradizione? Ma quale? Per confrontarsi occorre conoscere, dibattere. Parlerei semmai di appiattimento, di copie malriuscite che si schiacciano su un presente senza profondità, con la presunzione di darsi come recupero di modi e forme, ignorandone la dialettica e la necessità storica. E’ la situazione del nostro presente, d’accordo, quella dell’espropriazione della memoria e dell’esperienza: ma allora perché non farlo esplodere, il presente, esibirne le aporie, mettere in discussione il linguaggio che lo rappresenta?»
E poi ci sono fiumi di antologie, da fine millennio e da inizio secolo…
Frasca, oltre ad essere un poeta, è anche uno storico della letteratura, e sottolinea molte mancanze di rigore: «Un’antologia per essere un lavoro serio non può che essere affidata a dei critici e pertanto deve basarsi su un forte assunto, capace di connettere i testi antologizzati (non già i poeti) alle forze tipologico-culturali riconosciute in atto in una determinata società, non alle piccole zuffe del sottoinsieme delimitato, e dunque rissoso, dell’industria editoriale. Date queste premesse, mi sembra che il panorama attuale delle antologie nostrane riproponga quanto di più tronfio, insulso e autoreferenziale passi ancora sotto il nome di poesia. La vita, però, l’economia, la politica, magari l’arte stessa, fortunatamente scorrono altrove.» E Niva Lorenzini come giudica le ultime, tante antologie poetiche? «Delle antologie che "sbocciano" di questi tempi, in pestilenziale fioritura, non mi andrebbe proprio di parlare. Da una parte incoraggiano colpevolmente l’equivoco che sia possibile un travaso vissuto-scrittura acritico ed ecumenico (un antologista con le carte in regola, E. Testa, parla di "appello da raduno condominiale". Basterebbe ricordare la Rondoni-Loi, modello su tutte di diseducazione critica). Dall’altra, capita che le selezioni che appaiono severe (21 poeti ’coraggiosamente’ individuati da Piccini) non rispondano a criteri metodologici solidi, risultando poco più che scelte individuali, di gusto privato».
Che si tratti davvero di ’Liale di ritorno’?
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