Torna il Premio Delfini

1 settembre 2007 Articoli e recensioni
Torna il Premio Delfini

La storia della letteratura italiana, e non solo del Novecento, è segnata dalla vicenda di decine di cosiddetti ‘minori’ o ‘irregolari’, autori che sfuggono alle facili collocazioni di scuola o tendenza, che praticano vie apparentemente appartate, o inattuali, o troppo radicali. Fatto sta che poi, a ben guardare, sono proprio codesti ‘minori’, a volte, ad essere il sale della nostra letteratura, con la loro forza e il loro coraggio di rischiare, di calcare strade da altri (spesso i ‘maggiori’) ritenute poco redditizie, o troppo pericolose. E’ questo il caso di Antonio Delfini, scrittore e poeta modenese nato nel 1907, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita. Autore umorale, ma spesso felicissimo, Delfini ci ha lasciato uno spaccato efficacissimo della provincia italiana, in cui il gusto crepuscolare si fonde con accenti spesso crudelmente surreali in testi rimasti memorabili, come il Ricordo della Basca, Il fanalino della Battimonda o La Rosina perduta, e versi scorbutici, ma intensissimi, soprattutto nelle sue Poesie della fine del mondo.

Proprio ad Antonio Delfini è intitolato uno dei più seri e prestigiosi premi italiani di poesia, che, per iniziativa di uno dei più importanti galleristi italiani, Emilio Mazzoli, anch’egli modenese, è giunto ormai alla sua quarta edizione. Come mai, chiediamo a Mazzoli, un gallerista come lei ha tanto interesse, direi passione per la poesia?
«Lei ha ragione, anch’io direi più passione che interesse, la poesia è una cosa che ha sempre accompagnato la mia attività: ho fatto il gallerista per lavoro, ma da sempre la poesia è stata uno dei miei interessi principali. Oggi ho 65 anni, ma la mia liason con la poesia dura da quando ne avevo 15, è una specie di ‘persecuzione’, una vera e propria ossessione»
Come è nata l’idea del premio?
«Antonio Delfini secondo me è stato uno dei grandi genius loci d’Italia e certamente uno degli autori più importanti di Modena in tutto il 900. Poi è stato anche un mio amico. Lo sentivo un po’ dimenticato, e così è nata l’idea del Premio che è anche il mio modo di fare un regalo alla poesia, avvicinare dei giovani artisti al mondo delle lettere chiedendo loro di illustrare i libretti dei poeti finalisti del premio. Poi, naturalmente, senza l’input di Nanni Balestrini e Achille Bonito Oliva tutto sarebbe stato più difficile, forse impossibile».
Qual è il bilancio del premio dopo quattro edizioni?
«Il Premio è nato se vuole un po’ in casa, fatto tra amici, ma è cresciuto moltissimo in questi anni. Vedo che sia da parte dei poeti, che degli artisti, partecipare al Delfini è diventato ormai un fatto importante e questo mi fa molto piacere soprattutto perché siamo riusciti ad avvicinare la poesia alle arti figurative e questo era lo scopo primario della sua nascita»

Anche in questa quarta edizione, che consegnerà il suo riconoscimento internazionale all’inglese Tom Raworth, uno dei massimi esponenti della scrittura sperimentale internazionale, ancora poco conosciuto qui da noi, il Premio Delfini presenta un gruppo di autori nuovi complessivamente di buon livello, molto diversi tra loro, per tonalità e scelte di poetica.

Gian Maria Annovi (con i disegni di Massimo Kauffmann) in Self-Eaters (Autofagi) saggia le vie di una scrittura fortemente corporalizzata in cui le silohuette di personaggi disegnati con brevi tratti si divorano da se stesse in versi brevi e piani, raccontati con puntigliosa precisione da una poetica che disegna sullo sfondo la possibilità che non di corpi, ma di lingua in effetti si parli: «si mangia le parole / che altri poi rimangiano / e mastica un linguaggio / che abita sul fondo dello stomaco».
Lidia Riviello (con Elisabetta Benassi) nel suo Neon 80 sceglie invece un approccio più riflessivo e risentito, in un bel poemetto che, attraverso la storia delle lampade a fluorescenza, affronta di petto la storia vera e propria, a partire dagli anni 80, in cui «i metalmeccanici si estinsero come / antilopi». La scrittura della poetessa romana si affida a una sintassi complessa, ma mai distratta, che avvolge il lettore in una dimensione che definirei bio-politica, tesa alla scoperta delle contraddizioni del reale: «A quanto corpo abbiamo rinunciato per il look di base / con un’anima bella rinchiusa in una bora nucleare?» Il risultato è un poemetto intenso e ibrido di temi e stili che getta uno sguardo certamente originale sugli anni nei quali il neon «spegneva il sole».
Sara Davidovics (con Pietro Ruffo) in D’Acque, distribuisce i versi sulla pagina, contornandoli di grandi spazi bianchi, in cui spiccano frame di descrizioni e pensieri, particolari monchi, flash: «elettrico / il sangue corre sulla pellicola / più prossima alla cornea / linea in dilatazione». Il risultato sono le maglie larghe di un tessuto crudele di parole e frasi, che, nel farsi elenco, ne denunciano l’impossibile senso, la mai attinta completezza.
Stefano Massari con il suo Serie del ritorno (con Marina Gasparini) sceglie invece versi lunghi che si espandono a pie’ di versicoli brevissimi, in un’alternanza che disegna il dialogo tra chi descrive distante lacerti di azione e una voce prepotente, che indica sibillina, in un andamento a volte sapienziale, fatto dai versi assertivi, che intessono un ritmo quasi mistico e certamente orfico-ermetico: «non avere paura / l’angelo vero è il muro del niente / corpo che cade è tuo figlio (...) non avere paura / tieni tra i denti il seme migliore / corpo che nasce è tuo corpo».
Luigi Nacci (con Marco Colazzo) in Inter Nos / SS mette in campo una scrittura potentemente allegorica, dove pubblico e privato di un mondo ormai in guerra permanente, sommerso da merci e rifiuti, si fondono grazie a ritmi pensati con evidenza per essere eseguiti ad alta voce, disegnati con grande perizia metrica e prosodica, versi in cui lo spostamento metonimico potenzia l’impatto civile evidentissimo, proteggendolo da ogni retorica e costruendo un racconto intenso e colmo di echi: «Dirottiamo aeroplani di carta nei giorni di vento / Tramontana ci porta lontano e maestrale ci impenna / Nella stiva fa freddo si ghiaccia si gelano gli occhi / Non si vedono piste e non sono previsti atterraggi / (...) / Con le bombe facciamo palleggi di testa di piede di mano / Piroette sgambetti e passaggi fin quando non cade per terra / E’ un saltare di dita che pare la festa del primo dell’anno» Quella di Nacci è una scrittura di confine, confine tra stili e forme, ma anche confini fisici, che egli, confermando di aver raggiunto una rilevante maturazione formale, osserva con spietata chiarezza «Le frontiera si staglia di fronte le cose le taglia / In due volti due sguardi due modi di batter le ciglia».
Vincenzo Frungillo, infine (con Paola Pezzi) presenta un estratto da un più lungo poema intitolato Ogni cinque bracciate. Dedicato alle mitiche nuotatrici della DDR che a partire dalle Olimpiadi di Montreal stupirono il mondo con le loro vittorie, al loro corpo chimico, poi ricomparso a muro caduto, reso mostruoso dagli anabolizzanti, il testo di Frungillo si interroga sulla velocità e sulla Storia, esemplando sin il ritmo delle sue ottave sulla scansione del nuoto. Simbolo di un’umanità sempre in bilico tra storia e caos, le nuotatrici DDR e i loro corpi adolescenti vengono raccontati con una lingua piana, ma spesso piuttosto intensa che più che al ritmo sembra guardare ai tempi distesi della narrazione che le rendono singolari eredi della Laura petrarchesca, scintillanti, ma già corrose dalla perdita e dalla fine.

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