Robert Viscusi: la poesia come ‘quanto’ linguistico

Ilfattoquotidiano.it - maggio 2014 31 gennaio 2015 Letteratura e arti
Robert Viscusi: la poesia come ‘quanto’ linguistico

Non siamo più terra d’emigrazione, non siamo più terra d’immigrazione: siamo entrambe. Come se questa nazione si fosse trasformata in un enorme tubo dove scorrono liquide umanità di transito. Incrociandosi senza incontrarsi mai.

Ho pensato a questo quando ho letto i primi versi, i primi ‘sonetti’, dello splendido poema ‘potenziale’, stocastico, diffuso (ed espressionista, imho) che si intitola Ellis Island di Robert Viscusi, poeta americano ancora troppo poco conosciuto da noi.

Lo pubblica, o meglio inizia con il primo volume, una piccola ma tagliente casa editrice di Varese, Abrigliasciolta, facendolo accompagnare da un bel DVD di letture diretto da Luca Fantini.

Parla d’emigrazione Ellis Island, dell’emigrazione italiana negli States, prima di tutto, ma poi di tutte le altre che hanno fatto ciò che oggi chiamiamo Nord America.

Ma non è un libro sui ricordi Ellis Island, tutt’altro. È intanto uno spericolato e acutissimo esperimento formale, che va oltre il libro, espandendosi in Rete. Quello che Viscusi chiama il «testo stabile» di Ellis Island, infatti, è composto da 624 sonetti divisi in 52 libri, così ogni libro ha «tanti versi quante ore una settimana», mentre in tutto ci sono «tanti versi quanto le ore di 364 giorni».

Si stabilisce, per così dire, un rapporto tra il tempo della storia (quello dell’emigrazione) e quello del racconto (il nostro tempo, di noi che leggiamo o ascoltiamo le parole di Viscusi), alludendo chiaramente ad una ‘ritualità’ quotidiana della lettura o dell’ascolto, il libro (la poesia) come orologio o meridiana del nostro vivere. Ma non basta.

Collegandosi al sito web dedicato al libro si accede ad un generatore aleatorio di sonetti, dove avviene la randomizzazione di tutti i versi, che casualmente, volta per volta ne compongono uno nuovo, usando versi tratti da una qualsiasi delle poesie del «testo stabile».

C’è circa un duodecilione di possibili sonetti, dunque, anche se – direi heisemberghianamente – non è possibile prevedere quale di questi si formerà sotto i nostri occhi a ogni nuovo click.

Va detto che, in realtà, non si tratta di veri sonetti: non c’è struttura rimica, la quantità sillabica del verso varia liberamente. Ciò che conta è solo il numero di versi: quello canonico dei sonetti, 14. Ciò che conta è avere una serie di unità ‘discrete’ con le quali sia possibile individuare un algoritmo per costruire una combinatorietà pressoché infinita (ma in realtà numerabile).

I versi, cioè, si comportano come ‘quanti’, pacchetti di parole, unità discrete di senso che si muovono sfuggendo alle leggi del senso comune (e della fisica classica), creando storie e significati imprevedibili, imprevisti all’autore stesso, perché «le storie ti disintegrano come onde», che è poi il verso che apre Ellis Island.

E se il pensiero corre al bellissimo Tristano di Nanni Balestrini, per altro verso qui la dimensione inferiore delle stringhe linguistiche rende tutto più preciso, fluido, come solo la poesia può fare.

Nessuno stupore dunque ad apprendere che Viscusi è membro dell’Oplepo, calviniano, prosecutore dell’Oulipo e della sua letteratura “potenziale”. Il processo di frantumazione dell’io autoriale che avviene nel momento della realizzazione stocastica di questo o quel sonetto aleatorio, permette, per paradosso, all’epica di inverarsi.

I ‘versi-quanti’, indipendenti da qualsivoglia io lirico, ricomponendosi in modo casuale ricostruiscono una storia che ‘tiene’, ma muta continuamente pelle, si ibrida, si ‘maschera’, si ‘in-persona’ in ogni dramma, in ogni avventura, in ogni sconfitta e in ogni vittoria che nascono (da sempre e per sempre) nel continuo vagare dell’uomo, nel suo fuggire da una casa per trovare, infine, la casa.

A tutto ciò concorre una lingua (ben trasposta da Sardella in italiano) fatta da relazioni semplici, ma capace di arricchirsi dei cento colori dello slang, scorrevole, in qualche modo come l’acqua di cui spesso parla (oceanica tanto quanto il poema), ma ben radicata espressivamente (ruvida come la terra, o le terre, a cui continuamente allude).

Ma – al di là dei suoi aspetti formali e ‘combinatori – come ogni poema epico che si rispetti, Ellis Island è un libro integralmente politico, direi geo-politico nel suo far scontrare non solo destini individuali e classi sociali nell’arena di un capitalismo sempre morente e sempre risorto, ma sin le terre e gli oceani, esponendo a carne viva la sostanza del diritto, della libertà e dei rischi che gli uomini si assumono percorrendoli, delle violenze che si perpetrano lungo ogni percorso, da sempre: «Ci hanno costruito Italie usandoci come schiavi», per restare qui da noi.

Migrare è dunque un’allegoria di vivere, ma soprattutto l’esercizio di un diritto fondamentale, quello di scegliere il proprio luogo nel proprio tempo. Senza barriere. O della lotta per abbattere e scavalcare quelle barriere. Perché ciò che vale per Ellis Island vale per Lampedusa, per la frontiera tra USA e Messico, per i muri israeliani in Cisgiordiania, o per qualsiasi altro confine.

Ellis Island insomma è un libro di poesie che – in quanto libro – non esiste, perché, come l’uomo, non esiste da solo, ma soltanto in relazione con l’altro da sé, che sia il reale, o la sua realizzazione digitale.

Esiste in quanto scommessa, in quanto possibilità, in quanto progetto, in quanto hazard: è il tentativo di calcolo poetico delle probabilità di inveramento di un’utopia, comprendendo in esso ciò che nessun calcolo può calcolare e cioè l’imprevisto. Che qui è prima di tutto il lettore.

Insomma è una cosa viva, altro che un libro di poesie.

Qui il pezzo originale con i link multimediali

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