Quel gran genio di un ubriacone gallese

Il Garantista - novembre 2014 25 marzo 2015 Letteratura e arti
Quel gran genio di un ubriacone gallese

Se si pensa a quei libri «da leggere con le orecchie» di cui parlava James Joyce allora il primo autore che dovrebbe venirci in mente è il gallese Dylan Thomas, di cui ricorreva in questi giorni il centenario della nascita (era nato il 27 ottobre del 1914). Dylan Thomas è una figura unica, non solo nella letteratura anglosassone d’inizio secolo, ma più in generale nella lirica occidentale contemporanea.

Nato in Galles, nel 1914, Thomas è autore di poesie, piéce teatrali, novelle, di un dramma teatrale e radiofonico, Sotto il bosco di latte. L’”ubriacone gallese”, come a volte si definiva lui stesso, ebbe immediatamente successo e i suoi libri, da Ritratto dell’autore da cucciolo e fino al Mondo che respiro e a Morti e ingressi segneranno una stagione particolarmente viva della poesia anglosassone.

Thomas brucia intensamente la sua vita, come fa bruciare e scintillare i suoi versi e in questa scelta c’è certamente una parte della sua poetica, visto che non mancò di rispondere, polemicamente, alla definizione che Eliot dava di se stesso – «in politica sono un monarchico, in religione un anglocattolico, in letteratura un classicista » – con un sarcastico calco: «sono un gallese, sono un ubriacone,e amo il genere umano, specialmente la parte femminile».

Per aggiungere, poco dopo: «Sceglierei in qualunque momento di essere un poeta e vivere di astuzia e birra». Eccessivo nella sua poesia, come nella sua vita, tra svariati deraglement, Thomas raccoglie attenzione e successo in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, dove tornerà per quattro volte, e dove infine morirà nel 1953. Se i Futuristi stanno a monte della cosiddetta poesia sonora contemporanea, Dylan Thomas è certamente da considerarsi il padre dello spoken word: è lui il primo a ridare corpo sonoro alla poesia anglosassone, pressoché muta sino ad allora, ma con modalità molto diverse dalla declamazione teatrale, o dalla pura ricerca sonora che aveva segnato gli anni delle Avanguardie storiche, sino a Dada ed oltre. Alle sue spalle non sta tanto Marinetti, quanto Hopkins e il suo Sprung rythm, e certamente, per molti versi, è Dylan Thomas l’erede più diretto del gesuita irlandese, impareggiabile cesellatore di tempi, accenti, sonorità.

Thomas è il primo che, a XX secolo ormai inoltrato – molto semplicemente – torna a ”eseguire”, a ”scandire” la poesia (la sua e quella di altri), a metterla in voce, a trasformarla di nuovo in affascinante, empatico, travolgente spettacolo di intensità fatta parola. Non a caso tra i primi fan di Thomas, durante i suoi tour americani, c’è un giovane Allen Ginsberg, sin dal primo, casuale incontro, al banco del San Remo Cafe in Mac Doughall Street. Non a caso una leggenda metropolitana ascrive all’ammirazione per lui la scelta del giovane Robert Zimmerman di scegliere come suo pseudonimo artistico quello di Bob Dylan.

Perfino un musicista eccelso come Strawinsky si accorse di lui e gli chiese di scrivere un libretto d’opera che il gallese non riuscì, però, mai a realizzare. Ma Strawinsky non lo dimenticherà e dopo la sua morte gli dedicherà una composizione in memoria. Se esistono (e a mio parere esistono) due differenti strade per riportare la poesia alla voce, una tesa allo scavo ”concreto” del medium (penso a certo ”concretismo” tedesco, o ad autori come Henri Chopin in Francia, Jackson Mc Low in America, o Demetrio Stratos qui da noi) e l’altra tesa alla realizzazione performativa del testo poetico, certamente le radici di questa seconda via affondano tra l’Irlanda di Hopkins e il Galles di Thomas.

Dylan Thomas esegue le sue liriche quasi intonandole, un passo solo di qua del canto, donando a ogni testo una propria ”linea melodica” e intersecandola con una mostruosa e inconfondibile abilità nello scandire gli accenti. Il risultato è una lettura ad alta voce di grande impatto, in cui la parola si fa respiro, la sintassi ritmo, producendo una vera e propria esplosione di significati, che si potenzia proprio per l’impossibilità di ogni ”ricorsività”: la parola pronunciata fugge via, lasciando dietro di sé scie dense di senso, tanto imprevisto, quanto evidente. Così nella sua poesia natura e amore, sentimenti e sprezzatura, si mescolano e si scontrano nel flusso verbale, si espandono e si diffondono, letteralmente, a onde, risuonano, fanno eco, trascinando con sé, a ogni nuovo rimbalzo sonoro, significati inediti, squarci imprevisti sul mondo, brandelli d’interiorità che la corrente sonora trasporta con sé.

La lettura di Thomas, come ha notato recentemente William Grimes sul New York Times, riportando le impressioni del poeta Philipp Levine che negli anni 50 era studente alla Wayne University, dove Thomas terrà una serie di reading, è radicalmente diversa da quella di Eliot, con la sua «prissy voice», o di tutti gli altri poeti americani ed anglosassoni a lui contemporanei. Robert Kelly, un altro poeta americano, che ascoltò Thomas al City College, ne parla entusiasta: «Era fiero e magico, nella sua voce e nella sua presenza scenica. Non leggeva come usavano fare i poeti a quel tempo, guardando al soffitto come se stessero comunicando direttamente con Dio, o come Tennyson. Lui semplicemente parlava come se tutto nascesse dal suo cuore. Rendeva la gente conscia che la poesia poteva essere eccitante, che c’era qualcosa di tremendamente stimolante in lei. Posso ancora sentirla quella voce».

Per dirla con Zumthor, gli altri si limitavano a dare ”lettura” dei loro testi, Dylan Thomas faceva molto di più, riportava in vita, con una specie di miracolo acrobatico, ciò che la poesia era stata per millenni, ciò che silentemente seguitava a essere, sia pur imprigionata tra le pagine dei libri: parola fatta di voce, senso che abita il tempo, tempo che scandisce la vita, appellandosi a una comprensione e a una fruizione radicalmente diverse da quelle ”tradizionali”, affidate al verso e alla carta.

Non sembri eccessivo, ma credo che si possa affermare che certo mainstream dello spoken word americano contemporaneo, quel suo modo così energico, fluido, ritmato di eseguire le parole, derivi direttamente da Dylan Thomas. Per quanto sfortunata e globalmente breve sia stata la sua permanenza negli States, l’ubriacone gallese ha lasciato il segno: un segno evidente e prolifico. Negli States per la prima volta egli può avere un pubblico vasto e attento, la sua fama lo precede, di nuovo, per una volta tanto, un poeta diviene una celebrità e lo diviene per la sua immensa capacità di eseguire splendidamente i suoi testi poetici, indicando una strada che, di fatto, è quella di una poesia futura che è oggi sempre più presente, anche in nome dell’indimenticabile ”ubriacone gallese”.

Non limitatevi a leggerlo, ma andate a scovare in rete le sue registrazioni: leggetelo con le orecchie, per l’appunto…

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