Qualche chiosarella (un po’ paradossale e polemicuccia) a certi dibattiti in svolgimento

16 marzo 2005 Letteratura e arti
Qualche chiosarella (un po’ paradossale e polemicuccia) a certi dibattiti in svolgimento

Qualche tempo fa, su Nazione Indiana, è stato pubblicato un bel pezzo di Tiziano Scarpa, un pezzo arguto e polemico, intelligente.
L’argomento? I beejay. Chi sono? Secondo Scarpa, sono i recensori delle pagine culturali italiane, molti dei quali, lungi dall’essere dei critici letterari, in realtà si limitano a far lavoro di ’lancio’ di questo, o quel libro, senza possedere una vera e propria ’competenza’ letteraria: « Non sono sicuro che si possa parlare di critici letterari per una parte delle persone che recensiscono romanzi sui giornali. Sono esperti di letteratura? Non mi sembra. Che cosa hanno dato alla letteratura italiana, alla saggistica, all’interpretazione dei classici o dei grandi scrittori contemporanei? Nulla. Semplicemente, scrivono sui giornali. Esprimono pareri personali su un libro. Sono giornalisti che si occupano di romanzi. Niente di più». Tra loro e una seria analisi della letteratura, insomma, a giudizio di Tiziano, c’è lo stesso iato che sussiste tra Albertino e la musicologia. Contano i gusti, avrebbe detto Della Volpe, non le poetiche.
Le conseguenze di tutto ciò sono abbastanza rilevanti: «Per dimostrare la sua effettiva incidenza, il beejay ha un sistema: prendere un esordiente che nessuno ha ancora letto, recensirlo tempestivamente il giorno stesso dell’uscita del libro, e incensarlo. Se l’esordiente avrà successo, tutti diranno che la recensione del beejay ha fatto la differenza decretando il successo di quel libro. Nessuno ne aveva parlato prima, l’autore era sconosciuto: è stato il beejay a tirare fuori il coniglio dal cappello! Naturalmente, un abile beejay promuove soprattutto libri che possono incontrare il favore del pubblico, in un gioco di specchi spacciato per gerarchia di valori. In questo modo il beejay dimostra il suo potere di arbitro del gusto dei lettori. Deve farlo: lavorare per una testata a larga diffusione fa gola a molti, e persone in grado di mettere insieme quattro acche di pareri personali su un romanzo ce ne sono tantissime.»
Scarpa ha ragione. Ha mille ragioni: ma forse le cose stanno ancor peggio di così.
Pensate all’editoria: agli editor, e agli editori. Abbiamo assistito a una vera e propria diaspora di poeti e scrittori, esiliati dall’editoria italiana. Altro che Vittorini, o Calvino. A fare gli editor oggi sono, per un Mozzi che resiste, nella maggioranza dei casi, dei ’funzionari della letteratura’, degli onesti e a volte anche colti ’impiegati delle lettere’, persone che non hanno mai scritto una riga in proprio, o che, se lo hanno fatto, spesso e volentieri sarebbe stato meglio avessero evitato. Sono degli ’esperti’, se volete, ma esperti tanto e soprattutto di marketing, mediamente meno d’arte e di letteratura. Il problema non è se il romanzo sottoposto al loro giudizio sia, o no, un buon romanzo, il problema è se venderà, e se venderà allora, per strano processo metempsicotico, ecco che diventa buono. Se no, è cattivo. Che c’entra la letteratura ? Niente, ovviamente, ma loro sono lì per far funzionare un’azienda, non più per produrre cultura, ciò che devono fornire sono più semplicemente segni, o discorsi, riprodurre storie, mantenere lucidati simboli usurati, per garantirsene la vendita. Ora è certamente vero che l’arte è merce, ma non c’è arte senza un residuo, per quanto minimo, di valore d’uso, l’arte è una merce, insomma, ma una merce particolare, una merce simbolica (o allegorica), se resta solo la merce, se si produce puro valore di scambio, allora finisce che si crede di fare cultura e invece ci si limita a legittimare la spazzatura. E alla fine, mondezza dopo mondezza, perché la gente dovrebbe ostinarsi a comprar libri che, in ultimo, non sapranno più nemmeno ’consolarla’, bloccati come sono nell’eterno presente del trash?
Gli editori? Gli editori son quelli che sono: dopo anni di imprenditori intellettuali (Bompiani, Einaudi, Feltrinelli, Scheiwiller, Olivetti, ecc.) siamo arrivati, com’è normale che sia per il globo controllato dal Pensiero Unico della Ragione Economica, agli editori imprenditori, insomma tautologicamente agli imprenditori-imprenditori, che trattano la letteratura come le merendine, alla Berlusconi. Ora il problema ovviamente non è morale, o etico, il problema è economico: provate a pensare cosa accadrebbe se si tentasse di vendere automobili come se fossero frigoriferi. Sarebbe una tragedia, con risultati economici disastrosi. E viaggeremmo su macchine di pessima qualità, buone per congelarci i sofficini , ma assolutamente inadatte a un lungo viaggio. Che è esattamente quello che accade all’editoria italiana nell’epoca degli editori-imprenditori e degli editor ’funzionari’. Che poi, nonostante le scelte ’economiche’ e culturalmente spregiudicate dei suoi addetti, l’editoria italiana continui a restare in crisi, a essere un’impresa in perdita, è la ridicola nemesi, la punizione in contrappasso che certi signori hanno fatto di tutto per meritarsi. Né va meglio in Rete, non sempre almeno, perché a fronte di interventi e web-log seri, affidabili, preziosi, o anche al loro interno stesso, eccola lì, la critica ’sauvage’ che spinge, gli e-beejay da radio libera paesana, quelli che sparano migliaia di watt per trasmettere ciò che copiano dalle radio nazionali, o che pensano che Nastascja sia l’ultima stupefacente novità della ricerca musicale contemporanea, la critica sauvage di quelli che sanno un po’ di tutto e tutto di niente, di quelli che apoditticamente affermano sulla sola base del loro (assolutamente indiscutibile, sia chiaro) diritto a pubblicare.
Capita così di leggere in interventi dedicati al dibattito sulla letteratura cosiddetta popolare che Verga fu un autore di successo, e il bello è che il riferimento è alla sua produzione verista, mentre è noto a ogni buon studente liceale che Malavoglia e Mastro furono un fiasco completo, editorialmente parlando, che Verga, fu autore sì di successo, ma con testi orribili, come Storia di una capinera, o Tigre reale, e dovette faticare non poco a convincere il suo editore, Treves, a pubblicargli I Malavoglia, che all’imprenditore milanese dovevano parere come minimo una bizzarria. E dal punto di vista imprenditoriale, naturalmente, aveva ragione Treves. La corbelleria è là, ma nessuno trova niente da ridire. E’ una corbelleria consolatoria, ci rassicura che, almeno in passato, le cose non andavano così, e magari non è vero affatto, ma ci fa piacere pensarlo.
Capita altresì, anche su certi siti che vanno per la maggiore, di leggere robe incredibili: il povero De Angelis, dopo anni di integerrima, lirica, militanza orfico-simbolista, si trova, ad esempio, recentemente trasformato niente meno che nel primo poeta italiano «nondualista, shankariano» (sic!), una cosa tanto spaziale-futuribile che avrebbe spaventato persino noi scapestrati autori del Gruppo 93. Il problema, ovviamente, non è l’introduzione di nuove categorie critiche, fosse anche dai nomi tanto improbabili, il problema è che, filologicamente parlando, prima si dovrebbero legittimare le categorie e poi utilizzarle per etichettare questo, o quell’autore. Invece no, ci si appella all’auctoritas di uno o due testi semplicemente citati ed il gioco è fatto, la critica letteraria italiana ha una nuova categoria di analisi: lo shankerianismo non dualista. Come vedete siamo al medioevo. Chi non fosse contento di questo, potrà, comunque agevolmente rassicurare i suoi più foschi timori verificando come spesso le stesse ragioni critiche (critiche?) vengono usare, dallo stesso e-beejay, per lodare tutto e il contrario di tutto: Mario Benedetti tanto quanto Aldo Nove. A seconda delle convenienze, naturalmente, e senza colpa alcuna dei, suppongo sbigottiti, recensiti. La semiosfera letteraria, insomma, non è occupata solo dai beejay, ma anche dai commercialisti e da una strana figura che definirei del tuttologo-dilettante, del critico selvaggio. Nascono così i dibattiti poveri di un’Italietta letteraria costretta a scandalizzarsi del successo di Faletti, senza però aver poi capito bene che l’arte cambia, mentre il trash tende a restare sempre uguale a se stesso e che continuare a stupirsi dell’esistenza dell’immondizia (posto che Faletti sia trash, e Baricco, o Avoledo, o Lello Voce no, ma non è questo il punto che mi preme), non ci aiuterà più di tanto a rendere profumate le nostre letture.
Il problema è che, parafrasando il buon De Andrè, non ci sono editori buoni e che dunque, più che indignarsi (ancora, un’ennesima volta!) perché la realtà è la realtà, e l’imprenditore fa l’imprenditore, occorrerebbe essere capaci di una strategia di politica culturale alternativa. Nel suo piccolo, nel suo infimo, nel suo microscopico rilievo letterario, credo che lo slam, se ha dei meriti, ha meriti ’politico-culturali’, prima che artistici, mentre la Rete, per parte sua, è un’occasione che sarebbe preziosa, se solo riuscisse a tarare quei meccanismi di autoregolazione, in cui pure ho sperato, ma che con l’andar del tempo mi paiono tanto utopici e irrealizzabili, quanto l’autoregolazione del Libero Mercato.
Occorre dunque una verifica dei poteri. Dei poteri reali, tanto quanto di quelli ’simbolici’, teorici, epistemologici.
Insomma: Scarpa ha mille ragioni. Che non sono ancora tutte…

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1 Messaggio

  • Per come la leggo riportata, trovo la ricostruzione di Scarpa piuttosto intelligente, e tanto più interessante in quanto anche io desideroso di emergere come autore.
    Beh, mi dirai, se l’Italia è infestata dai bee-jay ( ed è vero, in molti sono poco preparati e servono solo al "lancio" di un prodotto, dunque sono più pubblicitari che recensori ) lo è ancor di più dai sedicenti autori e dagli esordienti alla ricerca di gloria. Forse è vero, come probabilmente è vero che la "letteratura alta", se ancora ci fosse, farebbe ancora più fatica a emergere causa la spietata legge di mercato. Non direi però che tutto quel che si legge dopo una recensione sia necessariamente orrido o trash. Faletti è un fenomeno particolare, ciascuno si può fare la sua idea su un autore che decide di de-nazionalizzarsi per ambire forse, e da subito, a un pubblico internazionale. Ma mi chiedo: che male c’è?
    Dan Brown è un altro caso ancora, se ne discute fieramente e lui continua a vendere. Il suo libro non è certo un capolavoro, ma presenta alcuni elementi di interesse, se non altro per come l’azione si svolge. Se riesci a buttarlo dopo una pagina, sei insomma un alieno.
    Il punto secondo me non è il trito vende-dunque-è-commerciale. La questione è la raggiungibilità del pubblico. Viviamo in un mondo sempre più merendinizzato, i potenziali lettori non hanno la capacità, parlo in termini molto generali, di mettersi seduti con pazienza a leggere la Récherche. Vogliono il BigMac del romanzo. Nessuno scandalo, a parer mio, se si scrive un thriller, o un noir. Se la storia tiene, almeno un requisito del buon libro c’è. E se poi, tra le righe, compare il tentativo di arricchire il lettore con qualcosa di nuovo, ancor meglio. Forse è proprio qui che potrebbe giocarsi la battaglia verso un’alternativa strategia editoriale.
    Ciao!
    Giampietro

    http://www.giampietrostocco.it

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