“Piccola cucina cannibale”, esce il nuovo disco-libro di poesia di Lello Voce

di Daniele Sanzone 21 febbraio 2012 02. Piccola cucina cannibale
“Piccola cucina cannibale”, esce il nuovo disco-libro di poesia di Lello Voce

[Pubblico qua di seguito il testo integrale dell’intervista di Daniele Sanzone, uscita in parte, sul Fatto.
L’articolo del quotidiano online è QUI


“La poesia è un’arte che abita il suono […] Ha dita fatte di vocali e consonanti per battere e carezzare, per catturare e per liberare, per coprire e per svelare”. Lello Voce è un anfibio in grado di muoversi magistralmente sia in poesia che in musica, è il Gil Scott-Heron nostrano, una delle voci più interessanti della poesia italiana, tra i fondatori del Gruppo 93, il primo in Italia ad introdurre il Poetry Slam (una competizione di poesia , ndr).

“Piccola cucina cannibale“ è il suo nuovo disco/libro di poesia, uscito per Squi[libri] editore. Un esperimento raffinato ed elegante con la collaborazione di artisti del calibro di: Paolo Fresu, Frank Nemola, Antonello Salis, Maria Pia De Vito, Canio Loguercio; e infine le tavole di Poetry Comics di Claudio Calia. Un’opera di confine dove il suono delle parole viene rafforzato dalla “voce” graffiante del poeta/cantante (?) e dalle note di artigiani di musica elettronica. “Piccola cucina cannibale” spinge e corrompe le definizioni dei generi in quei luoghi poetici che aspettano ancora un riconoscimento, un nome, perché troppo distanti, perché le “parole sono il ritmo della riscossa”.

1. Nella introduzione al volume affermi che ogni definizione alla tua opera risulta fuorviante e che invece dovremmo considerarla semplicemente poesia. Dove sta andando la poesia e che senso ha oggi?
La poesia sta tornando a casa. Mi spiego: la poesia è l’unica arte ad aver cambiato nel tempo il medium della sua trasmissione e dunque il senso coinvolto nella sua fruizione. Essa, da che era allocata nella voce, nel corpo del poeta, nel suo respiro, da che si accordava con la musica, si è fatta segno muto, sulla pagina. Da arte dell’orecchio è diventata arte dell’occhio. Questo ne fa una disciplina assolutamente particolare, un’arte che si è temperata al variare della temperatura dei suoi differenti media, come fosse ferro trasformato in acciaio. Oggi è un’arte affilatissima e tagliente, capace della raffinatezza linguistica estrema e della forza della voce che scandisce a tempo. E torna, profondamente mutata, in quella terra da cui era migrata qualche secolo fa: la terra dell’oralità. Ma la poesia è poi rimasta – in fondo – sempre la medesima e se oggi, letteralmente, riprende la parola, anche se lo fa con forme diversissime dal passato (soprattutto da quello recente), non ha alcun bisogno che le si cerchi un nome nuovo. E’ poesia, e tanto basta. Per altro verso essa è divenuta un’arte eccezionalmente ‘amichevole’, disponibile a fondersi con le altre Muse… L’idea di unire a questo disco/libro i fumetti di Claudio Calia e realizzare così il primo esperimento italiano di Poetry Comics nasce proprio da questa duttilità della poesia, da questa sua disponibilità a fondersi e a trasformarsi in altro, a divorare e ad essere divorata.

2. Saviano è riuscito a far andare in classifica Wislawa Szymborska grazie al potere della televisione. In un mondo sempre più piccolo e veloce, la mancata attenzione alla poesia credi sia un problema di educazione o di interesse?
Hai detto bene: a far vendere la Szymborska son stati Saviano e la TV. Nella società della Merce Assoluta si può vendere qualsiasi cosa, basta che la campagna di marketing sia efficace, il testimonial abbastanza ‘forte’. I desideri non nascono più, si creano, si progettano, poi si diffondono e si impongono. Compra, produci e, eventualmente, crepa. Leggersi una poesia ogni tanto non è cosa che possa, in sé, dare fastidio ad alcuno. Ma i libri venduti non sono i libri letti… Quello che voglio dire è che non è il singolo successo di un libro, positivo in sé, a poter liberare la poesia dal ghetto in cui è rinchiusa. Questo dipende da vari fattori. Certamente, alla faccia della nostra storia culturale, in Italia la poesia è amata pochissimo, ancor meno che in molte altre parti del mondo. E questo dipende evidentemente anche dalle strategie e dalle scelte di politica culturale ed educativa. Nelle nostre scuole si insegna poesia in modo sclerotizzato, polveroso, rinchiudendola nei libri e con lo sguardo sempre rivolto al passato. Né c’è alcun rapporto stabile tra chi la poesia la fa, ora e qui, e il mondo dell’Università, e si chiudono i Festival di poesia, solo perché ci vanno mille persone e non centomila e dunque funzionano male come volano elettorale. Questa nazione si comporta nei confronti della poesia e dei suoi poeti in modo vergognoso. Vista l’aria che tira, ci sarebbe da stupirsi del contrario.

3. Nell’eterno dibattito sul se si può fare poesia attraverso la forma canzone da che parte stai?
Io penso che attraverso la forma canzone si possano realizzare opere d’arte che non hanno nulla da invidiare a una bella poesia. Ma non credo affatto che i cantautori siano dei poeti. Ciò dipende dalla funzione ‘ancillare’ a cui il linguaggio è inevitabilmente costretto quando lo sforzo formale maggiore è concentrato sull’armonia musicale. Si provi a spogliare il testo della più bella delle canzoni d’autore della sua musica: solo in casi eccezionali quel testo sta in piedi da sé, quelle parole, senza la stampella della musica, non vanno da nessuna parte. Il problema non è la musica in sé – io faccio poesia da anni solo con musica – ma i rapporti, le relazioni formali che si stabiliscono tra le sonorità vocali, poetiche, e quelle strettamente musicali.

4. Qual è la differenza tra un qualsiasi disco musicale e il tuo?
Io faccio ‘spoken music’ come dicono in America, cioè poesia in musica. La poesia ha una sua musica interna, un suo ritmo, una sua velocità, una sua durata. Che sono caratteristiche spiccatamente musicali, oltre che linguistiche. E’ da lì che parte la realizzazione delle mie poesie. Quando le compongo (compongo, bada, non scrivo) nasce prima il testo, poi vado in studio e con la complicità del compositore che da anni collabora con me, Frank Nemola, registriamo il mio spoken word. Da quello partiamo per individuare la velocità metronomica, i nuclei ritmici, le strutture melodiche e armoniche proprie del testo e che saranno poi realizzate anche musicalmente dall’elettronica e dai contributi dei singoli strumenti, per esempio la tromba di Fresu, o quella di Gross. La musica che sente chi ascolta un mio disco è – in buona misura – la musica della poesia stessa, quella inscritta nelle parole, nel loro ritmo, nella loro ‘melodia’. E’ una musica, per dirla con Bach, ‘ben temperata’ alle parole, cioè accordata con esse. Ma quei testi non perdono la loro musicalità, se si toglie loro la musica propriamente detta.

5. Hai mai pensato di scrivere e cantare canzoni nel senso stretto del termine?
No, e per le ragioni che esponevo prima. Io non canto, io scandisco un testo. E’ un lavoro che, pur sembrando simile, è in realtà, affatto diverso. Ho anche provato, su richiesta degli amici musicisti, a comporre testi per loro. I risultati sono stati orribili. Io inevitabilmente seguo i miei ritmi poetici, non m’importa, per esempio, di chiudere ogni verso con un ‘tempo forte’, anzi… Le mie poesie sono piuttosto ‘incantabili’, nel senso proprio, ‘tonale’, del termine, quindi alla fine è un gatto che si morde la coda. Ne sanno qualcosa il tenore Bartolucci, a cui ho chiesto di cantare in Piccola Madre, e Maria Pia De Vito, a cui ho affidato i refrain di Napoletana, che hanno dovuto fare letteralmente i salti mortali, anche se alla fine mi pare che i risultati siano stati notevoli.

6. Quanto è difficile oggi pubblicare poesie?
E’ sempre molto difficile, ma alcuni spazi nuovi si stanno aprendo. Per altro verso la poesia, il libro di poesia, è una merce assai difficile da vendere, il suo valore d’uso è enorme, minimo quello di scambio, e poi l’Italia è un paese assolutamente ‘romanzo-centrico’. Il romanzo ha divorato tutto lo spazio letterario disponibile, tutto è, e deve essere, romanzo, e questo spiega anche la mediocrità di vastissima parte della produzione in prosa italiana. Non c’è gara, in ogni caso: la poesia ‘muta’, silenziosa, semplicemente scritta, si esprime in una lingua che, originariamente, non è sua, per il romanzo invece la scrittura destinata a una lettura silenziosa è ‘lingua-madre’.
Darwinianamente, il romanzo è più adatto ad essere venduto in quanto oggetto-libro, anche se certo non è l’unica forma possibile del narrare. La poesia, a voler stare ai fatti, viene prima.
Ma anche noi poeti abbiamo le nostre colpe: dovremmo avere più coraggio nello strappare la poesia all’abbraccio assassino della letteratura, accettare la sfida dell’oralità, incidere dischi, salire sui palchi. Se la poesia sarà capace di tornare quella che è sempre stata per la maggior parte della sua storia, di colpo le si apriranno davanti spazi enormi. E’ quello che sta succedendo in molte altre parti del mondo, si pensi alla scena del Poetry Slam internazionale. Il futuro della poesia è nei CD e nei supporti ‘liquidi’ (MP3, ecc), non nei libri. Se c’è qualcuno a cui tirare le orecchie, probabilmente, non è l’editoria a stampa, ma quella musicale. In Italia non c’è una sola casa discografica interessata a produrre poesia. Altrove non è così, anche perché è un errore enorme di prospettiva, prima di tutto commercialmente. La poesia sembra fatta apposta per intercettare una domanda di senso e profondità non disgiunti da emozioni, energia, intensità che è evidente in target vastissimi. Pensa a Linton Kwesi Johnson, a Saul Williams, a Gill Scott Heron… quelli sono poeti, non star del rock ‘n roll. Se solo qualcuno avesse il coraggio di investire seriamente sulla poesia, su un certo tipo di poesia, rischierebbe di avere risultati sorprendenti.

7. Perché la scelta di rivisitare “La canzone del maggio” di De Andrè?
Intanto perché è un brano che amo da sempre… Avevo vent’anni nel 77… E poi perché mi stimolava molto l’idea di tentare questa provocazione: che per una volta fosse un poeta a trasformare in poesia una canzone, fare una ‘cover poetica’ di una canzone che era già una ‘cover’, poiché il brano, da noi noto soprattutto per il meraviglioso re-mix di De Andrè, nasceva come ballata popolare anonima durante il 68 francese. Ovviamente, applicando gli strumenti dello spoken music a quanto già c’era, è mutata radicalmente anche la parte musicale a cui poi ha dato un contributo eccezionale la fisarmonica di Antonello Salis, ma che già io e Nemola avevamo completamente stravolto. Non a caso nel testo brani italiani si alternano a quelli dell’originale francese ricomponendo il testo in modo del tutto diverso dall’originale. Tutto è cambiato nella realtà politica in questi anni, e così se quella era una ballata, la mia, la nostra, è un incalzare di bassi, che ricorda il battere dei manganelli sugli scudi prima delle maledette, inutili cariche di Genova 2001. Anche il modo di picchiarci è cambiato in questi anni: prima si sparava, si caricava, ma per farci fuggire; ora ci chiudono in trappola e ci massacrano, o ci arrestano e fanno macelleria. I ritmi e le melodie della repressione sono un po’ variati. Il sangue no: quello è sempre il nostro.

8. In “Lai del ragionare lento” scrivi: «C’è un’aria che spira un’atmosfera da strage […] c’è che chi dovrebbe opporsi pone domande e non ha risposte». Credi sia paura o incapacità di governare?

Non credo che sia paura. Lorsignori hanno una sola paura, quella di perdere i loro privilegi. Siamo passati dalla lotta di classe alla lotta di casta. E non è una buona notizia, anche perché le caste, tranne l’essere solidali quando si tratta di reprimere i Paria, che saremmo noi tutti, tendono poi ad essere litigiose tra loro, ad azzannarsi appena possibile, creando danni ulteriori alla collettività. Le caste sono, inoltre, il regno di Bengodi dell’incompetenza. Di una casta si fa parte per nascita, non per merito. Anche di quelle – e ce ne sono tante – di Sinistra, che sono le più sinistre. Per altro verso è un paradosso continuare a chiedere di governare questa nave a chi ha evidentemente tutto l’interesse per far sì che essa affondi. Sono già pronti, dopo aver saccheggiato il bastimento, a vendere il relitto al migliore offerente, come in Grecia. Senza alcun problema etico, peraltro. Chi gode di un privilegio, inevitabilmente, è portato a pensare che sia un diritto. Sta a noi suggerirgli il contrario…

9. In “Rivoluzione fragile” affermi: «perché non vogliamo tutto ci accontentiamo / di una parte quella essenziale / ma la vogliamo tutta e subito». Cosa è cambiato dal “vogliamo tutto” degli anni ’70?
Come ti dicevo prima, tutto è cambiato, radicalmente cambiato dagli anni 70. Questa crisi non è semplicemente una crisi finanziaria, è molto di più: è una crisi sistemica, dunque una crisi della società tutta insieme, una crisi culturale, politica, antropologica e valoriale, una crisi in cui a essere messo in ballo è il significato stesso della parola democrazia, almeno per come esso ci era stato consegnato dalla tradizione liberale. Siamo costretti sulla difensiva, si fa lotta di resistenza. Non ci penso neanche a ‘volere tutto’, come negli anni 70, ma voglio anche che sia ben chiaro che non sono affatto disponibile a rinunciare a ciò che è essenziale, al nocciolo duro che fa di un paese una democrazia: la libertà dal bisogno e , conseguentemente, la libertà di pensiero, parola, organizzazione. E, poiché l’immaginario è evidentemente uno dei luoghi chiave per decidere chi vincerà questa battaglia, credo che la poesia possa dire la sua, in questa crisi. Non per suonare il piffero alla rivoluzione, certo, ma piuttosto per inventare parole nuove che ci permettano di sognare nuovi sogni, di far nascere nuove identità.

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