Modernità e Novecento

23 novembre 2003 Letteratura e arti
Modernità e Novecento

Ho trovato estremamente interessante l’intervento di Giovanni Raboni sul Corriere del 17 gennaio, dedicato ai rapporti tra Modernità e Novecento ed almeno altrettanto la risposta di Cesare De Michelis, che, sempre sulle colonne del quotidiano milanese, ne confuta radicalmente le tesi. Il nocciolo dell’intervento di Raboni stava nell’individuazione delle radici della Modernità, non, come si usa fare, nel secolo appena trascorso, ma - con capovolgimento radicale dell’opinione corrente - nell’Ottocento, cui essa apparterebbe integralmente. De Michelis, per parte sua, gli fa colpa di voler salvare la Modernità, separandola dall’orrore novecentesco, tomba di ogni umanesimo, che invero ancora non si chiude, poiché delle conseguenze di quella Modernità noi siamo ancora vittime.
Ora io non vorrei entrare nel merito di un dibattito che - non se abbiano a male gli autorevoli disputanti - rischia di essere un po’ malfermo sin dalle sue premesse e almeno fino a quando non ci metteremo d’accordo per davvero, ad esempio, su cosa significhi Ottocento - visto che certo esso, mi si passi la metafora un po’ rozza, non inizia nel 1801 e non termina nel 1899 - o su cosa sia la Modernità - che certo niente ha a che fare col modernismo e qualcosa in comune invece ce l’ha con l’ottocentesco, progressivo, ma anti-progressista, Leopardi. E nemmeno mi sogno di provare a sbrogliare lo gliommero del rapporto tra mutamenti strutturali e ideologie, o culture, o, peggio ancora, poetiche, a seguire il cui filo finiremmo per domandarci se questa Modernità, di cui discutiamo, è categoria artistico-letteraria, o invece più generalmente culturale, o addirittura - Dio ce ne scampi! - storico-economica.
Piuttosto mi interessa qui rilevare un aspetto - magari laterale - della questione. Posto che lo smascheramento, direi ’stoico’, di De Michelis mi convince più della proposta di Raboni, ciò che mi colpisce è che il nocciolo (e l’importanza) della tesi di Raboni è forse anche altro: la ricerca di una nuova identità per il post-moderno, insomma per la contemporaneità nostra, che si risolve in un rispecchiamento ottocentesco che mette tra parentesi le Avanguardie e riscopre il progressista, ma liricissimo Romanticismo… L’io - vecchio asparagone gaddiano - che con un acrobatico salto mortale supera indenne il baratro novecentesco e ci torna in grembo, più nuovo e ’moderno’ che mai… Il problema, insomma, non mi sembra tanto - e non appaia troppo prosaico - che il Novecento sia o non sia «la negazione o la parodia della Modernità», quanto evitare che il Duemila diventi la parodia di un gattopardesco - ma modernissimo - Ottocento umanista.

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