Marcovaldo va in città. E suona il jazz.

10 marzo 2004 Articoli e recensioni
<i>Marcovaldo va in città. E suona il jazz.</i>

Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, di Italo Calvino, viene pubblicato nel 1963, anno certo di qualche rilevanza per la nostra letteratura, e riunisce in sé dieci racconti già compresi ne Gli amori difficili del 1958, con dieci nuovi testi, composti per l’occasione. Unico il protagonista, Marcovaldo, per l’appunto, contadino inurbato, sorta di pavan da boom economico, dall’immaginazione fertile, protagonista di un’avventura di integrazione impossibile nella Città, in cui il tema del rapporto tra Natura e tecnologia (e Cultura) fa da sfondo a una serie di quasi-fiabe melanconiche e senza lieto fine, lungo il percorso di una narrazione che (con l’aggiunta dei racconti del ’63) segna una progressiva identificazione dell’autore nel personaggio protagonista e una conseguente variazione della focalizzazione e dell’ideologia stessa del testo, che dal genere fiabesco, slitta di lato, sino ad esiti francamente surreali che sembrano oggi - visti i tempi che corrono - trasformarcisi sotto gli occhi in inquietante profezia…
Non a caso Marcovaldo torna in libreria in questi giorni, sotto forma di disco, nella lettura di Marco Paolini, che, accompagnato da un gruppo di musicisti che da tempo contamina musica e poesia (Paolo Fresu, Fulvio Maras, Carlo Mariani, Massimo Nardi e Gianluca Ruggeri, riuniti per l’occasione sotto il nome di Tanit) ne esegue i primi quattro racconti, Funghi in città, La villeggiatura in panchina, Il piccione comunale, La città smarrita nella neve.
La voce magistralmente stralunata di Paolini fa capolino tra sipari musicali raffinatissimi, nei quali l’inconfondibile timbro della tromba di Paolo Fresu disegna (o strazia) melodie, in equilibrio acrobatico sugli sfondi percussivi di Maras , Ruggeri, e Nardi - ora sincopati, ora più distesi, arrampicati lungo armonie complesse, estremamente accattivanti.
Io ho il sospetto, come accennavo prima, che la scelta di un uomo delle pianure (e dei petrolchimici) come Marco Paolini, di leggere proprio il rustego inurbato Marcovaldo, e proprio oggi, di questi tempi, non sia casuale, ma lui, se glielo chiedo, nega: «Ah, se si potesse dire che tutto è scelta. Invece mi hanno proposto Marcovaldo, mi hanno proposto le prime 4 storie, una per stagione, mi hanno proposto una buona paga, mi hanno detto che alla signora Calvino sarebbe piaciuto che le leggessi proprio io. Così ho pensato che forse era così perché le ricordavo Marcovaldo.» Ed è l’ultima battuta, quella sulla somiglianza Paolini-Marcovaldo, quella che va tenuta presente, perché, sarà pure andata come dice Paolini, ma poi lui al Marcovaldo ha dato con la sua voce un’impronta spiccatissima, assolutamente contemporanea, a sottolineare che, certo, il tempo passa, ma poi certi brani - come quello in cui Marcovaldo confronta la luna e il semaforo che «segnava giallo, giallo, giallo, continuando ad accendersi e a riaccendersi», restano lì, come un chiodo piantato al cuore delle nostre contraddizioni, della nostra incapacità di mettere d’accordo natura e progresso, luna e semafori… Che effetto ti ha fatto dar voce alla prosa, a delle ’fiabe’, dopo aver letto ad alta voce tanta poesia? Come hai individuato la ’voce’, il tono giusto per questo Marcovaldo del Terzo Millennio? «C’è, nella prima edizione del Marcovaldo, una spaziatura ogni tanto tra le righe che suggerisce una lettura. Ho cercato di seguire questo ritmo-misura aggiungendo solo un po’ di colore alle voci. Spero che non sia troppo, di sicuro con Calvino basta poco perché le righe respirino di vita propria». Ma perché è importante leggere nuovamente (o meglio, ascoltare) Marcovaldo oggi? «Sono andato a rileggere Marcovaldo per vedere se era come me lo ricordavo. Un extracittadino, un emigrato dalla natura, uno fuori orario, fuori centro, ma anche fuori periferia, uno che ci guarda da vicino ma non vede come noi; un cavaliere/scudiero, un Sancho/Don Chisciotte, un italiano povero accampato tra il benessere. Non c’è bisogno di un’aquila per capire che Marcovaldo tornerà buono per reimparare a guardar le vetrine senza comprare, ma anche per stupirci di fronte a ogni commovente forma di resistenza della natura alla nostra insipienza. » E tornerà buono prima di tutto a noi, ’cittadini’, perché, a dirla con le parole di Calvino stesso, Marcovaldo «questo estraneo alla città, è il cittadino per eccellenza».

Italo Calvino
Marcovaldo, ovvero le stagioni in città.
CD.Audio
Marco Paolini - voce recitante.
Musiche di Tanit (Paolo Fresu, Fulvio Maras, Carlo Mariani, Massimo Nardi, Gianluca Ruggeri)
Ed. Full Color Sound

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2 Messaggi del forum

  • Marcovaldo va in città. E suona il jazz. 31 marzo 2010 16:21, di Mauriziospag

    SIGNOR JAZZ
    ..Chi lo avrebbe mai immaginato,
    di improvvisarti, fare parte di te
    e scritturare il mio sollievo..

    Non ho mai sentito nulla di più bello
    Il Jazz è come un sogno
    È la casa mentale di tutti gli accecati artisti.
    Lui è un elegante signore
    Il signor Jazz
    Ti guarda
    È tutta una risposta
    In lui
    C’è candore e tanta gentilezza
    Lui può esserti di male
    Ma ti capisce se l’ami.

    Le mie note parole
    Sono lacrime agli occhi.

    Non c’è altro da fare
    Scrivi in continua saggezza
    Il Jazz poetico
    È il tuo annuncio
    La tua memoria
    Il tuo vecchio impiccato Jazz.

    Le mie note parole
    Sono lacrime agli occhi
    Ancora sulle guance
    In un lungo silenzio personale.

    L’insensato Jazz
    È il controllo del volto in volo
    Un tipo curioso e galante
    Un quadro tenuto sotto uno stato impensabile
    O una donna
    Conosciuta in un giorno affollato
    Nel centro di un’idea.

    Il Jazz
    È un cielo giunto fra città nemiche
    Con i suoi imminenti
    Cambi di umore e stagione
    Il primo segno
    Il primo colpo di tosse
    E contatti di luce fuoristrada..
    Autostrade incalzanti.

    Un bel po’ di storia
    Il Jazz
    Fra orecchio
    Palato fine
    E spalle minacciose
    Un bel po’ di vita
    Il Jazz
    Scarabocchio indelebile
    Infilato nella tasca anteriore della carne
    La bestia originaria
    Puro investimento
    Di un artista in ascesa o discesa.
    Un bel po’ di note
    Il nontiscordardimè improvvisato Jazz.

    Non ho mai libato nulla di più libero
    Un sorso di caffè
    È la mia vecchia impressione
    Un sorso di contentezza
    È la pelle d’oca
    Di starmene accolto
    In tua compagnia
    Per luoghi accoccolati ad occhi abbassati.

    Le mie note parole
    Sono lacrime agli occhi
    Ma sane e forti
    Come correnti di eventi
    E dentro un’occhiata a quei fogli inesistenti..
    Che individuano l’immortalità del Jazz.

    Lettera poetica del signor Jazz:
    Maurizio Spagna

    ©
    di Maurizio Spagna
    www.ilrotoversi.com
    info@ilrotoversi.com
    L’ideatore
    paroliere, scrittore e poeta al leggìo-

    Vedi on line : Signor Jazz...

  • Marcovaldo va in città. E suona il jazz. 6 febbraio 2006 12:00, di cristina paparello albegno

    al fà schefe

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