Lello Voce, poeta da combattimento e di movimento

7 febbraio 2004 06. Farfalle da combattimento
Lello Voce, poeta da combattimento e di movimento

Anzitutto. Lello Voce è un poeta politico. E questa sarebbe una notizia? Come se tutti i poeti - musici, commediografi, video-installatori - non fossero politici! Per favore! Quando parli fai politica. Se poi parli - o scrivi, o scrivi come per parlare-declamare, come fa Lello Voce in «Rap di fine secolo (e millennio)» - con l’intenzione di essere ascoltato da uno che non è lì davanti a te mentre parli - o scrivi, eccetera -’ allora fai politica al quadrato, al cubo, non so. Un momento, calma. Se si dice che Lello Voce è un poeta politico s’intende che scrive versi consapevolménte ricavati dal magma dì avvenimentì e situazioni che disegnano lo stato politico delle cose. Con indignazione, non di rado. Con rabbioso dolore. Con corporale desiderio d’altri mondi. O di una zona liberata, magari. L’attesa di un cenno, di un sussulto, può bastare oggi, no? Lello Voce è uno di quei poeti politici che dichiara un dissenso. Lo dichiara nel suono (fondamentale il suono in lui, che è un poeta musicale, e non è musica d’Arcadia, neanche l’Arcadia avant-garde), nelle parole, come si susseguono e accavallano, nella eruttiva e logicissima composizione delle sue poesie. Un dissenso globale. Almeno quanto la Globalizzazione. E dichiara un prender parte per rotture radicali e comunità in via di invenzione.
Non è vero che «Rap di fine secolo (e millennio)» Lello Voce lo scrive come per parlare-declamare. O meglio: è vero e non è vero. Lo scrive. Poi lo declama insieme a Paolo Fresu, che suona la tromba evocando il tardo e sovversivo Miles Davis, e insieme a Frank Nemola, che cura la programmazione elettronica. Il poemetto lo si legge nella versione scritta e lo si ascolta nella versione suonata (in un cd allegato) nel nuovo volume di poesie pubblicato da Lello Voce da Bompiani, nella collana «inVersi» curata da Aldo Nove: il titolo è Farfalle da combattimento (pp. 58, L. 14.000). Non ci sono pause, qui, né segni di punteggiatura, né maiuscole a inizio periodo. Il rap è così, la passìone di Lello Voce per la lingua, e per la lingua che suona, e per una possibilità di linguaggio, qui non sopporta altro che il flusso torrenziale. All’avvio un gioco frenetico di assonanze: «fine finalmente finita fine fissato flusso di flutti feroci a finis-mondo a finis-terra a finis-tempo...». Più avanti passaggi epici, tragici, ironici come questo: «... e ustascia cetnici che corrono nei corridoi a caccia di scalpi indiani di scalpi metropolitani da offrire poi in sacrificio a questo secolo così breve da stare tutto in una poesia tanto breve da mozzare lì il millennio tanto breve da stare tutto in un solo gulag...».
Naturalmente ci sarà chi troverà irritanti i due frammenti citati, così come tutto il poemetto rap e tutta la grande poesia di Letto Voce, la sua sapienza generosa. Perché Lello Voce, poeta politico, in quel modo che s’è detto, è poeta che divide, che aggredisce, anche se abbraccia così calorosamente chi non va in cerca d’Arcadia (ce n’è ancora tanta negli scaffali), trentasette anni fa si sarebbe detto chi non va in cerca di letteratura consolatoria, ma non parliamone più, ora che persino Balestrinì nega che quel Gruppo là fosse un movimento. A proposito di Balestrini, maestro di scrittura e di idee. Scrive una bellissima prefazione al libro di Lello Voce. Si trova dopo un’altrettanto bella nota dì Jovanotti (« il rap sono anellidi fumo...»). In questa prefazione si fa una distinzione tra «poesia civile» e poesia «piattamente politica». Tolto il «piattamente», è probabile che la poesia politica sia vista come didascalica e la poesia civile come libera e creativa dentro la scelta dei riferimenti sociali e politici. Teniamo ferma la definizione Lello Voce poeta politico, perché cì sembra adatta alla sensazione che lui con la poesia voglia «intervenire». Ma è difficile capire quanto sia determinante la sua voglia dì dire per cambiare e quanto la sua voglia di cambiare per dire nella lingua dirompente, indisciplinata, consequenziale, torrida, a-sintattica e chiarissima nella quale compone le sue poesie. Chiaro che Lello Voce dice, anzitutto, per dire. Scrive, anzitutto, per scrivere. In questo senso è lontana da lui l’idea di una poesia didascalica e oratoria, anche se un tanto di oratorio c’è nelle sue poesie e non è affatto sgradevole perché è voluto e mimato: «Mente - sia chiaro, compagni - mente sapendo di mentire chi sostiene che sia razionale la violenza dello stato mentre invece il terrorismo quello sì quello davvero il nemico vero...» - da «Canzone delle lotte (o di Marcos Durito Zapatista)».
D’altra parte questo nodo del rapporto tra poesia e politica viene sciolto da Lello Voce stesso nella maniera più efficace: scrivendo poesie su che cosa sia la poesia. Dodici poesie a formare la raccolta «Rorschach», un po’ il cuore del libro. Qui non si parla né di zapatisti né di disoccupazione, si parla di poesia, una cosa che a scuola ci hanno spiegato in malo modo, una cosa a cui conviene affidare le possibilità ulteriori di un comunicare per trasformare sapendo che la «nuova» regola è sempre in agguato. Qui l’ispirazione politica di Lello Voce si mostra attraverso l’uso smodato e controllato di molti echi, da Dante a Ginsberg a Voce. «La poesia è quest’intenzione d’andare /diritti al nocciolo e seguendo tutti/i sentieri paralleli insomma il digredire /che c’è nelle parole e che fa mutti...». Ma poi la poesia è quella cosa «che tra attrito e attrito il senso / ritrova che induce a dire e a ribellare»

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