Left jamming

19 novembre 2003 Letteratura e arti
Left jamming

Per carità, non è per voglia di far polemica ad ogni costo. Né per il gusto un po’ cinico di lavare in pubblico i panni sporchi. E nemmeno in omaggio alla felice sbadataggine che induce a buttare via il bambino e l’acqua (anch’essa sporca, come i panni). No, è solo il bisogno di esprimere questo strano imbarazzo, quasi un’inquietudine, a metà tra sospetto e contentezza da ’simplicitas’ bertoldiana, che mi prende ogni volta che provo a ripensare con qualche attenzione agli intellettuali italiani di sinistra, solo ieri affogati in tonnellate di Nutella e dolcificanti neo-spiritual-liberali e ora tutti giovani Pasolini in erba, neo-seguaci fortiniani, o anche neo-neo- epigoni neo-avanguardisti. Che volete farci, sono d’animo sensibile: quando sento Paolo Flores D’Arcais dire che lavoro interinale e contratti d’area sono una forma di bieco sfruttamento, la versione post-moderna del capolarato, vengo preso da un turbamento strano che mi riporta alla mente pile piramidali di MicroMega, tutte dedicate alla necessità di un cambiamento radicale (maggioritario e liberal-selvaggio) delle politiche sovietiche e stataliste della sinistra italiana; se vedo Moretti berciare sul palco, non posso proprio esimermi dal prestare orecchio ad Erri De Luca, che lo rassomiglia al "grido di un azionista deluso", quando sento l’indignazione di ’Pancho’, mi viene il prurito molesto di sapere come mai a luglio, per Genova, non s’è indignato affatto; se leggo Vattimo che si fa campione della rinascita culturale a sinistra, vengo immediatamente travolto da una debolezza ermeneutica provocata da tifoni di ricordi di lui, Vattimo, con Gargani, sottobraccio a Heidegger, a pattinare ilari e irenici sul ghiaccio scivoloso della morte delle ideologie; quando mi ritrovo vincitori del Campiello trasformati, in un nanosecondo, in fustigatori dell’italietta dei premi letterari, o D’Elia che, dopo anni di poesia innamorata di se stessa e della sua mistica bellezza, è oggi accanto a noi, punta di diamante di quella che egli stesso definisce l’Italia dei poeti che non ci sta ( e quella degli eroi, dei santi, dei navigatori, che fa?), non posso dimenticarmi di decenni di trasparente disimpegno neo-romantico, tutto dedito a tramonti, stupefazioni epifaniche e chi più ne ha più ne metta. E per amor di completezza, voglio qui confessare a voi tutti che anche Dario Fo da Celentano a me è rimasto lì, a lievitare nel gargarozzo, senza andare né su, né giù. Il medesimo dicasi per il toccapalle Benigni a Sanremo, che si ostina a cantare anche se è stonato quasi più di Battiato e che certamente non si è esposto più del dovuto. Oscar oblige…
Non fosse per la coerenza leninista e tutta dura e pura del Manifesto, che continua ostinato a dedicare pagine intere a Sanremo e ad applaudire entusiasta il buon senso paesano e un po’ ridicolo di Fiorello, dopo aver inneggiato a Bongiorno, Fazio e Teocoli, a me verrebbe il sospetto di essere capitato al cuore di una operazione di mastodontico ed un po’ ipocrita trasformismo…
Ma è solo un’impressione, da non prendere sul serio, sono io che ho problemi: vedrete che alla fine, pur di liberarci del Berlusca, riusciremo a fare andare d’amore e d’accordo Rilke ed Heidegger con Gramsci e Habermas, il Festival di Sanremo e i premi letterari di Confindustria con Fortini e i Centri sociali, senza per questo rinunciare alla nostra coerenza e ai nostri valori. In fondo basterà cambiare le giurie. Magari inserendo Vattimo, Cotroneo, Flores D’Arcais, D’Elia e Moretti. Sarà tutta un’altra cosa, allora!

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