Le unghie della poesia

Edizioni del Leone - 2009 24 marzo 2009 Saggi
Le unghie della poesia

Delle sue poesie Joumana Haddad dice che “ sono scritte con le unghie” e chiunque le legga con attenzione non potrà che concordare con lei. Già, ma cosa significa, in realtà, scrivere ‘con le unghie’?
Significa farlo senza penna, senza medium, materia vivente su materia inerte, significa concepire la scrittura come una scultura (di segni, di suoni, di voci, di sentimenti, di ritmi, di destini), con il fine di realizzare il miracolo di ogni scultura: rendere dinamica l’immobilità, far vivere la pietra, rendere la materia corpo.
Scrivere con le unghie, dunque, significa immaginare la scrittura come un corpo, un corpo con cui lottare, un corpo da violare, un corpo con cui congiungersi e da cui sapersi separare, un corpo su cui infierire, su cui infliggere, con sapienza divina da Marchese, la ferita della parola e della voce che la pronuncia, un corpo da subire e da scegliere, da amare e da respingere, da torturare e da deliziare. Significa restituire il corpo al suo desiderio.
Scrivere con le unghie significa, infine, fare della scrittura il segno del desiderio, individuare la ‘casella vuota’ (Lacan) e il vento possente che dal suo vuoto si genera, come un tornado che ci risucchia per metterci all’altezza della nostra immaginazione.

Sono poesie che graffiano, le poesie di Adrenalina, poesie che scavano, che scrostano, che incidono, che feriscono, poesie che lasciano cicatrici (e che, proprio perciò, hanno il potere strano di curare le cicatrici, almeno quelle del linguaggio e quelle dell’animo), poesie che sollevano i lembi d’ogni luogo comune, d’ogni clichè, per portare in carne viva le verità e le bugie, i desideri e gli interdetti, i sogni e le delusioni, poesie che fanno della timidezza l’estrema, scioccante esibizione, della nudità e del corpo desiderante la castità d’ogni vizio; poesie feroci e spietate, che divorano le menzogne del mondo, ma che, per farlo, devono prima sbranare il corpo stesso del poeta.

È poesia di pensiero questa di Joumana Haddad, ma di una razza tutta particolare, fatta di narrazioni sempre interrotte e sempre riprese, e di metafore sensualmente abbarbicate alle loro radici, un pensiero fatto di repentini spostamenti metonimici, di lato, facendo lo sgambetto al destino, di squilibri governati da leggi equilibratissime e ferree, di immagini allo specchio, che svelano l’insospettato, l’imprevisto, appena sotto la pelle del reale; è poesia razionalmente sentimentale, provocatoria e casta, tanto quanto Justine e tutti i suoi desideri e i suoi pudori, colma di voglie e di piaceri quanto ogni sua punizione.
È poe-philosophie dans le boudoir, direi, sono appunti per progetti di vite già vissute e mai realmente iniziate (e che dunque non termineranno mai, mai), assonometrie di sogni, modelli di mondi appassionati, dove la mente (unico vero, potente ‘organo sessuale’ di quella ‘macchina celibe’ che è il corpo umano) si sostituisce alla pura meccanica dei sessi, per raggiungere l’altra faccia del sesso, quella oscura, quella del desiderio violento, vibrante, travolgente, proibito, quella del piacere infinito del corpo, che ci insegna a scoprire dove s’è annidata l’anima, o, meglio, quello strano straccio sudicio che il vento della vita fa vibrare, macchiato di sensazioni e sensi e bisogni e miserie e fragilità e forza e valori, che noi umani usiamo chiamare anima.

Davvero il rapporto con la parola, con la lingua, intrattenuto dall’io, o meglio dai molteplici io femminili (e maschili, perché di poesia ermafrodita, a ben vedere, si tratta) protagonisti di queste poesie è un rapporto di totale abnegazione; il loro è un desiderio che non si realizza se non è nominato, se non è incatenato dalla lingua e alla lingua, perché lo sguardo viziato (e sadicamente, fiabescamente vizioso) del lettore possa goderne appieno, perché il suo tatto possa carezzarlo, il suo udito coglierne le vibrazioni languidamente sofferte, la sua lingua toccarne, letteralmente, la lingua; un desiderio che non si invera se non è parlato (in arabo, inglese, italiano, francese, spagnolo, a seconda di quale delle sue tante lingue scelga di usare quella folla, quella intera città, che è Joumana Haddad: Joumana-Beirut, ma anche Joumana-Napoli, o Joumana-Parigi, Londra, Cairo, Medellin) ed è proprio questa schiavitù della parola che le permette di dominare il reale e i sentimenti, di farli diventare poesia e di rendere la sua poesia tanto ‘efficace’, direi decisiva.

Le poesie di Adrenalina sono poesie sulla libertà, figlie e madri della libertà: libertà di dire, di mostrare, di vedere, di nascondere, di tacere, di annuire e di rifiutare, di possedere e di abbandonare, di dilapidare e di risparmiare, quella libertà che è l’unica vera adrenalina della vita, quel coraggio, quella dignità di non mettersi proni che fanno di Lilith non solo la prima donna, ma anche, e definitivamente, il primo uomo.
Sono poesie che, stando apparentemente di lato, con garbo spietato ci sussurrano all’orecchio che ogni integralismo, ogni religione ‘positiva’, come avrebbe detto Voltaire, è un laccio alla fantasia e al futuro, se non sa fare della relazione (del relativismo e della relatività) e del dialogo (di quel dialogo che precede ogni linguaggio, persino quello di Dio) la parola con la quale si confronta con il mondo.
Sono poesie che sperimentano tutte le tradizioni, e che tutte traducono e tradiscono, poesie antropofaghe che di tutte si nutrono, ma che sanno bene che non c’è tradizione che non predichi libertà, che non sia nata, per l’appunto, come provocatoria libertà, come indecente ed adultera nostalgia del futuro.

E sono poesie sulla perdita, sulla morte: la morte fantasmagorica che taglia il respiro durante ogni orgasmo gemello (la ‘piccola morte’ di Bataille) e quella che taglia le gambe, che ci fa cadavres exquis di noi stessi già in vita; sulla morte salvifica, che ci mette al riparo dalla sopravvivenza (perché è meglio morire, che perdere la vita), e su quella che arriva come un tuffo dal nulla nel nulla; sulla perdita che ci libera dall’esperienza e su quella che ci lega per sempre alla memoria e alla mancanza, sulla perdita che ci fa ricominciare e su quella che ci ferma, una volta per tutte, e per buona sorte. E anche tutto questo, ovviamente, ha a che fare con il desiderio e con il corpo.
Il corpo della poesia e la poesia del corpo sono, insomma, la stessa cosa.

E se questa raccolta è ordinata à rebours, dall’oggi andando verso ieri, è perché è proprio così che la poesia ‘avviene’.
Perché la poesia è questo cammino a ritroso, quest’archeologia del futuro che ci insegna a ricordare, quest’andare di spalle all’avvenire immaginando il domani, questo scavare tunnel per scoprire nuovi cieli, questo ideare il desiderio praticando l’interdetto, la disciplina, la regola, per violarli entrambi, desiderio e interdetto, in nome di un sogno che ancora nessuno, tranne il poeta, ha avuto la tentazione e il coraggio sregolato di sognare.

Averlo intuito con tanta lucidità è il segreto del banchetto (segreto) a cui Joumana Haddad ci invita con i suoi splendidi versi.
E chi si siederà con lei, chi si nutrirà delle sue parole e del loro (del suo) corpo non vorrà più rialzarsi da tavola, anche se non capirà mai se egli è il cibo, o piuttosto il commensale.
Anzi, proprio per questo.

Joumana Haddad
Adrenalina
Edizioni del Leone, 2009

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