Le protesi del Post-Moderno

21 novembre 2003 Costume e società
Le protesi del Post-Moderno

Molti di voi già sapranno degli esperimenti dello scienziato K. Warwick. Per chi ne fosse ancora all’oscuro, basterà qui precisare che questo signore è deciso a diventare il primo cyborg della storia. Si è già installato un chip nel braccio sinistro, col quale comanda una serie di macchine del suo studio e trasmette a distanza segnali a sua moglie, a cui ne ha impiantato uno gemello. Ultimamente ha fatto un ulteriore passo avanti: collegando il chip al suo sistema nervoso centrale, è riuscito a muovere a distanza una mano artificiale e poi, servendosi di Internet, ha fatto lo stesso con un arto piazzato a New York. «E’ stato come avere un braccio lungo un oceano», ha sintetizzato lui, che come prossimo obiettivo ha quello della digitalizzazione e trasmissione delle sensazioni: non solo potremo fare l’amore a distanza, e con totale soddisfazione, ma anche conoscere cosa prova nostra moglie mentre partorisce. Promessa di Warwick.
Lo scienziato inglese mi è tornato in mente ieri, mentre rileggevo alcuni versi dello Spogliatoio della signora, di Swift, i memorabili passaggi in cui la bella dama giunta nel camerino inizia - letteralmente - a smontarsi, trasformandosi in una vecchia cadente: «si toglie le chiome artificiali (…) l’occhio di vetro lucida e da parte lo ripone » ecc… E ho pensato che si poteva guardarla dal punto di vista delle ’protesi’, tutta la distanza tra la nostra contemporaneità e il Settecento di Swift. Ciò che allora andava nascosto, perché segno di imperfezione, segnale irrevocabile di mancanza, è oggi, almeno nelle sue versioni tecnologiche, diventato uno status symbol (la protesi telefonino, ad esempio). E c’è un’internalizzazione (e un’interiorizzazione) della protesi (e questo vale tanto per i siliconi tetta-tenenti, che per i chip di Warwick) e un suo rendersi (ad esempio attraverso la Rete) immateriale. Da questo punto di vista, l’auto e perfino l’aereo e il razzo, sono protesi antiche, nel loro essere esterne al corpo, utili a trasportare trippe, piuttosto che sensazioni.
Meglio così, come sostiene Warwick, o meglio il bel tempo antico? Non so, so soltanto - e lo dice anche Warwick - che perché tutto vada bene occorrerà porsi il problema del cosiddetto digital divide, cioè del fatto che a tutti sia permesso, in egual misura, l’accesso a queste ’protesi’. Per ora il ’divide’ è ben chiaro: ai ricchi le protesi telematiche e ai poveri quelle che monta Strada, in Afganistan, per sostituire arti di bambini sfracellati da bombe che sembrano giocattoli. A che ci servirà digitalizzare e trasmettere a distanza il dolore di quei bambini che la vecchia e intramontabile crudeltà umana ha violentato?

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