Lavoro: una condanna mascherata da privilegio?

28 novembre 2003 Costume e società
Lavoro: una condanna mascherata da privilegio?

Non sono un sindacalista, né un economista, o un esperto di politiche del lavoro. Se sono qui a parlarvi del Referendum sull’articolo 18, è semplicemente per sottoporvi una mia riflessione, diciamo così, antropologica. Con brutale semplificazione: chi si oppone, sostiene che l’eventuale estensione del diritto al reintegro per chi sia ingiustamente (e sottolineo ingiustamente) licenziato provocherebbe una perdita di competitività delle piccole imprese e, conseguentemente, un aumento della disoccupazione. Chi è favorevole, invece, sottolinea che non c’è alcuna ragione per la quale, in una democrazia compiuta che si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri, alcuni lavoratori godano di diritti che vengono invece negati ad altri che svolgono il medesimo lavoro.
Senza voler entrare nel merito, una cosa è, però, evidente: si confrontano due argomentazioni che hanno caratteristiche radicalmente differenti. Una è di tipo strettamente economico, l’altra fa appello a un universo di valori e di diritti. A sfidarsi in questo referendum sono, in fondo, la Ragione Economica e quella Etica, il Pensiero Unico della Merce Globale e il sogno collettivo di un mondo di diritti globali. Continuare a chiedere agli italiani di scegliere solo in base a considerazioni strettamente economiche (posto, e non ne sono certo, che le conseguenze dell’approvazione del quesito fossero quelle tragiche, prospettate da Confindustria) significa, obiettivamente, collaborare all’imbarbarimento collettivo che sta trasformando tutto (dalla scuola, agli ospedali, alla famiglia) in una grande, impersonale azienda, in cui per i valori e la coscienza degli uomini non vi è più posto. E forse vale la pena di farsi alcune domande, prima di decidere per il sì o per il no. Il lavoro, sia pur in un mondo in cui esso è indispensabile per il riconoscimento sociale e la sopravvivenza materiale, è un valore in sé? E’ comunque meglio lavorare, anche se senza alcun diritto, anche se sfruttati sino all’osso? E’ il lavoro, in sé, che ci dà dignità, o è l’esercizio della nostra libertà? Che Italia è questa, nella quale siamo costretti ad opporre i due termini di quello che solo ieri era un dittico inseparabile per una nazione che considerava il lavoro un diritto e non un privilegio?
Credetemi, è evidente che in ballo c’è ben più che un certo numero di posti di lavoro, c’è, piuttosto, un’idea della società, dei diritti, dell’eguaglianza, infine della democrazia. In ballo c’è il progetto del mondo che stiamo costruendo, il futuro delle nostre speranze, dei nostri sogni e persino della nostra libertà. Il diritto al lavoro senza tutto questo, semplicemente non è più un diritto, rischia di trasformarsi in una condanna, mascherata oscenamente da privilegio.

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