La poesia prima dei poeti

alfabeta2, 2011, dicembre 5 dicembre 2011 Letteratura e arti
La poesia prima dei poeti

(Si tratta dello scritto introduttivo al focus Poesia mondo festival, pubblicato sul numero in edicola di alfabeta2 e che riunisce gli interventi tenuti in luglio a Medellin dai fondatori del World Poetry Movement)

La poesia nasce prima dei poeti. La poesia nasce nel mondo, non prima del mondo, anche se poi, per prima, si affanna a cercare un codice per rendere comprensibile il mondo.
C’è poesia ben prima che si abbia notizia di qualsiasi poeta, se è vero, ed è vero, che essa è il medium più antico che l’uomo conosca per la trasmissione dell’informazione non genetica. E forse era a qualcosa del genere che si riferiva già il Vico, nella sua Scienza nuova, quando discorreva della lingua poeticissima delle origini.
Né la poesia può fare a meno del mondo, a meno di non voler sparire… La poesia nasce insieme alla comunità.
La stessa tradizione lirica, quella di più stretta osservanza petrarchista, non potrà fare a meno di concordare sul fatto che sin la grande confessione (e l’esercizio di pentimento ed auto-contrizione) del Canzoniere ha senso soltanto a partire dalla sua dimensione ‘pubblica’, poiché nessuna confessione ha effetto senza un orecchio che ne sia in ascolto, ogni confessione è la messa in scena del peccato, e pretende il suo pubblico.
Se la poesia è nel mondo, insomma, essa non può esserci che a partire dalla sua voce. E dalla capacità che la sua voce ha di catturare l’ascolto della comunità e di fondare un dialogo.
La comunità è fatta di corpi, di presenze, non c’è comunità nella solitudine pur attenta, critica, intelligente del lettore, e questo, ahimè, scava un fossato incolmabile tra narrazione epica e narrazione romanzesca: un fossato politico, che riguarda le prassi (di trasmissione e di ricezione), prima che le poetiche, in cui la forma scelta è già, in sé, scelta di campo ideologica, prima che formale; una pratica in cui l’io non può avere spazio, se non a partire dalla riduzione al suo essere relazione. Il dialogo nasce prima della lingua, come sottolinea Lotman (e Amir Or nella sua ponencia ci ricorda che: «la poesia è dialogo nella sua forma più alta»), o, a dirla con Zumthor: “in poesia non c’è parola senza voce”.
Così, il suo scegliere di diventare muta, il suo farsene sin un vanto per qualche secolo, più o meno dal XIX in poi, è stato una sorta di suicidio, la scelta di un eremitaggio radicale che l’Estetica hegeliana, nominando il romanzo nuova epica borghese, di fatto sancisce. Oggi, invece, le tecnologie digitali di riproduzione, registrazione, sintesi vocale, le possibilità di sharing offerte dalla Rete, riportano la poesia ad abitare la voce, a cercare il proprio pubblico, che non è più quello del griot, contenuto nei confini di un villaggio, né quello elitario e iper-letterario del consumo silente e borghese, ma quello del villaggio globale, in linea di principio un pubblico di massa. La poesia riscopre assieme le sue radici e l’imprevedibilità di un’oralità nuova e sinora letteralmente inaudita.
E’ questa la ragione per la quale nel mondo (e persino in Italia) si moltiplicano gli appuntamenti live di poesia: festival, poetry slam, reading e il fenomeno è ormai tanto rilevante che persino i poeti ‘muti’, coloro che si fanno vanto di scrivere esclusivamente per la carta, poi non perdono occasione per salire sul palco, inventandosi una voce che spesso, ahimè, non hanno affatto, o montando desolanti siparietti musicali che tentano di trasformare, con superficiale faciloneria, ciò che è nato per essere letto in silenzio, ex abrupto, in trobadorica performance di spoken music.

Ciò che è accaduto a Medellin, dove nel luglio di quest’anno, in occasione di quello che può essere considerato il più grande e noto tra i festival internazionali di poesia, a cui assistono ogni anno migliaia e migliaia di spettatori, si sono ritrovati più di trenta direttori di eventi e scuole poetiche di tutti i continenti e dove è stato fondato il World Poetry Movement , rischia di essere frainteso se non lo si guarda tenendo presente quale sia la storia di quest’arte, che con la letteratura ha ben poco a che fare.
I termini generali del dibattito, ad una lettura veloce, infatti, possono sembrare le solite dispute tra autonomia ed eteronomia, un altalenare tra certo cinismo europeo, ben avvertito dei termini di un problema sin troppo discusso, abusato, e le posizioni assai diverse che giungevano da Africa e Latino America, che lo sguardo europeo interpreta usualmente come ingenue, mentre invece, frutto come sono di società in cui il sandwich tra tradizioni tribali e orizzonti digitali è intensissimo, possono essere comprese probabilmente solo in chiave blochiana.
Se, però, si sceglie di guardare a questi contributi non nella loro singolarità, ma per ciò che sono davvero, cioè brani di un dialogo, allora le cose cambiano, allora persino quelli che sembrano minimi spostamenti laterali dai singoli ‘luoghi comuni’ divengono con chiarezza l’abbozzo di un nuovo discorso. Che, nel rispondere a cosa possa fare la poesia per la pace, un grande autore di haiku come Ban’ya Natshuishi abbia l’ardire di mettere in discussione il significato che la natura ha all’interno di quel canone, o che persino Bas Kwakman, che pure ci dice di essere cresciuto all’interno di una tradizione di «poesia che parla a se stessa», dichiari oggi di non volere, di non potere restare fuori dal mondo, sono segnali di grande importanza nel loro alludere a una dinamica nuova che avanza, che ci dicono che una nuova esplorazione, una nuova cartografia del territorio, è ormai in atto.
E per orizzontarsi qui, nel territorio inesplorato ‘ubi sunt leones’, i poeti ricominciano dalla voce, la voce del loro dialogo e quella del loro performare durante il festival, durante ogni festival, cioè dal loro riportare la poesia dove essa è, in fondo, sempre stata: nel tempo, nel corpo, nel suono, nel ‘coro’, nelle loro ‘durate’ e nelle loro ‘materie’.
Ciò che è accaduto, insomma, è che la poesia è tornata a parlare di poesia, prima che di poeti, e del suo rapporto con il mondo; è accaduto che, per tornare ad essere parte della comunità, i poeti hanno deciso di fondare di nuovo una comunità.
La poesia che vuole tornare nel mondo si è fatta, intanto, poesia-mondo.
Nel tempo delle nuove migrazioni, di cui ci parla Rorvik, nel tempo del capitalismo maturo e ormai a un passo dal collasso, che adopera il linguaggio come raffinatissima arma di sfruttamento e di violenza, cui ci riporta la relazione della Revista Prometeo, la poesia, arte migrante per eccellenza, è tornata a migrare. Verso l’altro da sé, cioè, infine, verso le sue radici.

Da questo punto di vista, ciò di cui si è discusso a Medellin non è stato se la poesia dovesse tornare ad essere ‘impegnata’, o meno, quanto piuttosto quale debba essere, oggi, la ‘politica’ che la poesia deve mettere in atto per tornare ad essere presente nella società, per tornare, insomma, ad essere se stessa; quali debbano essere le sue nuove ‘forme’, le forme del suo comunicare, ma anche le forme del suo ‘pensare’ il mondo e del suo ‘pensarsi nel mondo’: non di poesia politica si è discusso, quanto piuttosto di ‘politica della poesia’. La poesia, implicando in sé la comunità, è, in qualche modo, sempre politica, «la natura politica della poesia risiede sempre nel suo contesto specifico» (Wolfart). E’ questa la vera, grande, importante novità che giunge da Medellin e che giunga da una riunione di direttori di festival, di quei luoghi dove, allo spirare del secolo, la poesia è tornata infine ad essere pronunciata, non è casuale, ma anzi è in qualche modo l’allegoria di tutto quanto si è discusso. È nei festival che la poesia ha ripreso la parola ed è a partire dai festival, dall’incontro di linguaggi diversi, che oggi essa vuole provare a riflettere su come essere, qui ed ora, su come tornare a parlare, qui ed ora, perché, qui ed ora, alla poesia è infine tornata la memoria ed essa può, dunque, ricominciare ad immaginare un futuro.

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