La poesia è una scimia che si chiama Tombo

www.absolutepoetry.org 25 maggio 2010 Letteratura e arti
La poesia è una <i>scimia</i> che si chiama Tombo

La scimia Tombo è la protagonista di un celeberrimo racconto di un celeberrimo irregolare delle nostre lettere, Tommaso Landolfi.
Di proprietà di due zittelle, Tombo di notte si scioglie dalla catena, fugge via dalla sua gabbia e va nel vicino convento dove, salita sull’altare, mimando il rito sacro, mangia ostie e beve vino, per giungere una notte addirittura a “scompisciare l’altare”. Sacrilegio!
Scoperta dalle due vecchie e dalle suore, verrà finita, con l’entusiastica benedizione di Monsignor Tostini e nonostante la memorabile difesa di Padre Alessio, con “un lungo spillone da cappelli, uno di quegli oggetti che nelle famiglie perbene si tramandano di generazione in generazione”.

Ecco, chissà perché, ma a me, Tombo, la scimia landolfiana, è sempre parsa un’allegoria della poesia, dei suoi rapporti con le convenzioni, con le ‘forme’, del suo essere – se è - ‘maschera nuda’, come avrebbe detto Pirandello, una metafora aspra del suo destino d’essere tollerata finché sta alla catena, in gabbia, ma immediatamente assassinata (d’incuranza, silenzio, dileggio, mercato, povertà), se decide di dire la sua con forza, di uscire dallo schema che la vuole vecchia e ormai arte d’antan, buona al massimo come fiore all’occhiello di questo, o quell’editore ‘sensibile’, immantinente trafitta dallo spillone del mercato, se pretende d’occupar nuovi spazi, di rivoluzionare le sue forme, d’esser scomoda, di scavare le pieghe della lingua e della realtà.

E a questa poesia nostra contemporanea, alla Scimia Tombo, insomma, è toccato in sorte di vivere in un mondo in cui non c’è più traccia nemmeno di quel pessimo avvocato che fu, per il quadrumane landolfiano, il buon Padre Alessio.
Le è toccato di vivere in un’ Ytaglia che, oltre ad essere Ytaglia, è, per di più, un’ Ytaglia totalmente romanzocentrica, in cui davvero sembra, ogni giorno di più, che la letteratura, o meglio, le arti del linguaggio, della parola, si limitino al romanzo (e si badi bene, non alla prosa, ma al romanzo, proprio), almeno a parere di certi romanzieri (e critici alcuni) nostrani, che sussiegano al verso, lo ignorano, e se ne fanno vanto, se ne fanno vana burla e dileggio. Lo danno per ‘postumo’, inutile, irrilevante, sin decorativo…
Passi per editor, ragionieri del sedicesimo, dirigenti marketing, direttori editoriali, et similia, pecunia non olet…, poetry doesn’t sell, anzi, il loro è un comprensibilissimo (e proprio perciò desolante) punto di vista.
Ma certi romanzieri, quelli no, non li avevo considerati…

Chi ne volesse prova potrebbe ad esempio dare un’occhiata alle risposte offerte a un’inchiesta recentemente proposta dagli amici di Nazione indiana 2.0, titolata La responsabilità dell’autore.
Per la verità l’inchiesta è dedicata a tutt’altro, ma fatto sta che all’intervistatore, nel formulare la prima domanda, pare normale (come dargli torto?) chiedere tanto di prosa, quanto di poesia… Ingenuo… Hic Rhodus, hic saltus!
Fatto aggio per il notissimo CPPP, cioè il notissimo Critico Partigiano del Poeta Postumo, che da sempre, dopo aver dissertato di un mai individuato ‘pubblico della poesia’ (scritta), sostiene che essa sia oramai morta stecchita, la maggioranza dei narratori intervenuti (che sono peraltro la maggioranza degli intervenuti) dice sulla poesia cose abbastanza incredibili e inaspettate: nel senso che non ne dice nulla.
Meglio: o taluni, con l’invidiabile serenità dei semplici, ammettono di non leggerne, almeno non di contemporanea e (non sia mai!) italiana, di non saperne un fico secco, insomma (“Circa la poesia, sapendone poco o nulla, mi astengo da qualunque commento”, ), o, tali-tanti, ne tacciono, quasi che quella parola compresa nella domanda posta dall’intervistatore fosse una sorta di fàtica formula di cortesia, come il ‘tutto bene?’ a cui non è certo necessario rispondere…
C’è chi tra loro arriva a sostenere (sotto forma di giovine romanziere/editor) che la colpa è dei poeti, che non sono abbastanza ‘personaggi’ che non sanno essere amichevoli con l’audience (“I poeti in Italia non contano nulla. Non vengono letti. Non vengono analizzati. Non vengono capiti, quando vengono letti. E la pratica poetica diventa spesso un alibi ancora peggiore. Un’occupazione da letterati anonimi. […] Gli unici poeti italiani che riescono a gettare un labile ponte verso il mondo sono Aldo Nove e Patrizia Cavalli: sono sguardi riconosciuti da una fetta di lettori più ampia di quella dei lettori di poesia. Il resto è autoottico. […]Ma c’è qualcosa che gli autori possono fare? Credo di sì: cercare un codice ibrido che possa trovare spazio negli interstizi della comunicazione cafona dei media oggi.”), e c’è da essergliene grati, che almeno lui ne parla, della poesia, sia pure per dirne certuni strafalcioni.
Beati monoculi in terra caecorum. Piuttosto che niente, meglio piuttosto… Anche se, lo sappiamo, dicono romanzo, comunicazione, lettori, ma intendono: Mercato.

Non fosse orribile (e anche un po’ sin verguenza), sarebbe ridicolo. Proprio coloro che dovrebbero difendere la Scimia con l’ardore di Don Alessio, si fregano le mani al pensiero dell’imminente esecuzione: Monsignor Tostini che non sono altro, la trasformano in un Carneade in rima, degni eredi di quel ben noto Abbondio, la cui razza, si sa, attualmente in Ytaglia abbonda...
Eppure anche loro, in fondo, non sono, darwinianamente, altro che scimie, scimpanzé. Sia pure in prosa, ma pur sempre scimpanzé…
E poi, visto che la poesia è quell’arte che più d’ogni altra serve per tenere in esercizio la lingua, come sostiene Maestro Pagliarani, e che dunque è arte amichevole assai con la prosa romanzesca e ad essa è indiscutibilmente utilissima, se non altro quanto lo è l’uccello all’emù, o al rinoceronte sulla cui testa sta, il pesce pilota alla rotta dello squalo, la scimmia spidocchiante a quella spidocchiata, tutto ciò sembra poi segnale di come tristemente per certi (tanti, fin troppi) prosatori nostrani, l’arte del romanzo in fondo consista sostanzialmente nell’invenzione di un plot vendibile, intrigante, molto ‘instant’, di migliaia di plot, uno diverso dall’altro, ma tutti narrati con la medesima, piatta lingua ultra-mediale e tristemente cinefila, bene accetta al mercato, sia pure nella sua nicchia ‘sinistra’…
Migliaia di storie che sono sostanzialmente, da questo punto di vista, la medesima.
Forse qualche viaggio in più tra i versi non guasterebbe loro, visto che un romanzo che non abbia una sua propria ‘lingua’ è un romanzo senza forma, una sceneggiatura travestita da romanzo. Un testo ‘muto al quadrato’.
Certa produzione romanzesca nostrana, e non solo nostrana, temo, è probabilmente una bubble, letteralmente, un castello di carte, che prima o poi crollerà. Dunque: nulla da stupirsi di certe esternazioni, o di certi altrettanto espliciti silenzi a proposito di poesia.
Meglio discutere notte e giorno di generi, inventarsi sempre nuove tassonomie e sotto-tassonomie, in un delirio leibniziano in cui davvero certo romanzo ytagliano appare come una monade senza porte né finestre.
E non si dica che non è affar nostro, ché i poeti narrano, invero incontrovertibilmente, da secoli prima che chicchessia romanzasse.

La poesia per parte sua intanto cambia, almeno una certa poesia, quella che ha coraggio di rischiare le sue carte sul tavolo della nostalgia del futuro. Essa muta le sue forme, e se certuni CPPP la danno per postuma, forse è anche perché, letterati come sono, cioè muti e sordi, non hanno più gli strumenti per leggere, per analizzare il corpo presente della poesia, che è corpo plurivoco, multimediale e multimorfo, corpo vocale, che respira e ‘avviene’. Un corpo che esegue la sua arte.

Sono, essi, postumi. I postumi di un’ubriacatura cartacea (e borghese più che mai) fatta di esseri solitari e ‘lettori’, che solinghi leggono, reciprocamente ignorandosi isolati, senza un pizzico d’epica che li salvi all’inferno: ignavi, ahimè.
Dispersa che hanno la storia, si accontentano di far scorpacciate di storie. E i migliori tra loro di taluni pettegolezzi critici che su di esse si fanno…
Mentre invece è probabilmente l’ora di aguzzare le orecchie per sorprendere in tempo il rumore del passo della bestia che si avvicina.
Quell’autoottico di Giacomo Leopardi, quell’anonimo letterato marchigiano, di poco successo e minori vendite, nella sua assai poco cafona Ginestra la definì “social catena” e far catena leggendo è operazione piuttosto disagevole…
La poesia invece scandisce, a costo di passar per matta, la sua nuova vicenda, ostinata, proprio sul carretto che, apparentemente, come il Maggior suo, la traduce in esilio…
Auguriamoci per lei ….

Non sembri corporativo, tutto ciò. Piuttosto corporeo (e culturalmente politico ed amichevole, visto che giusto a un prosatore abbiamo rubato la titolazione nostra).

Non sembri polemica. Lo è.
Non sembri provocazione. Lo è.

Perché proprio questo è lo scopo di codesta nostra Scimia, far come Tombo, portar scompiglio, far un solo boccone di certe fin troppo note poesie/ostie, sfornate da Arciconfraternite del Turibolo, contese tra Ministeri calvi e Cattedrali lascive, berci d’un sorso certi muti grigi versi, simili a berci, fermentati a simbolismo e alterati nel calice ermetico con alcol orfico, scompisciare sugli altari del buonsenso letterario che, alla faccia di qualsiasi senso comune, sta avvelenando ogni nostra parola, ogni nostra analisi, ogni nostra ‘concreta’ speranza, sbertucciare sulle Magnifiche sorti e progressive della Ufficialissima Poesia Ytagliana, quella che feudalizza l’editoria nostrana poverella, concedendo talora a valvassini e simili lo spazio di due pagine, che due pagine non si negano a nessuno, soprattutto se ben educato e meglio disciplinato…
Convinti come siamo, eredi dell’erede di Zacinto, che l’universo, prima o poi, si controbilancia…
E anche se alla fine, certamente, quelli che contano davvero nelle patrie lettere lo spillone giusto per noi, siatene certi, lo troveranno, e forse lo hanno già trovato, noi nel frattempo saremo giambici: potete contarci.

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