La didattica della common decency: il Libro Grosso di Ennio Cavalli

L’Unità, 2011, marzo 1 aprile 2011 Articoli e recensioni
La didattica della <i> common decency</i>: il <i>Libro Grosso</i> di Ennio Cavalli

La poesia di Ennio Cavalli è una poesia, insieme, antica e futuribile, è poesia civile, capace di fare appello a quella che Orwell definiva la common decency e insieme poesia d’immaginazione, capace di stupirsi a ogni parola con la stessa intensa ingenuità di un bambino che sfoglia per la prima volta le pagine del suo sillabario nuovo.

Se dico che è ‘antica’ lo dico pensando a certa poesia del Monti, quella ad esempio dell’Ode a Monsieur de Montgolfier, o a certi passaggi del Parini de L’innesto del vaiuolo, ad esempio, o finanche de La caduta; poesia didattica, insomma, che spiega, conduce per mano, indica, ma che, nello stesso momento, compie, proprio nel suo essere didattica, un percorso di nuova conoscenza, inintermesso, cerca valori, li riafferma con testardaggine, ha il coraggio e la maleducazione di proporli di nuovo, proprio in un tempo che sembra averli del tutto dimenticati.

E’ un illuminista ostinato, in effetti, Cavalli, un figlio dei Lumi che usa la poesia come bussola per orientarsi nella storia, nella natura e, ça va sans dire, nella lingua, una lingua che è poetica, ma non sino al punto di non essere lesta, all’occorrenza, a trasformarsi in conversazione, dialogo, addirittura in ascolto, quando si lascia attraversare dai conversari del mondo, da quelli dei bambini, a quelli degli ‘eroi’.
Questo è poi un libro che “non è normale”, come dice l’autore stesso, nella sua Premessa, un libro “kolossal” che riunisce i tre precedenti volumi di Cavalli (Libro di storia e di grilli, Libro di scienza e di nani, Libro di Sillabe), insieme a un gruppo di inediti, e li fa accompagnare dal viatico di tre note di Alessandro Fo, Roberto Roversi e Erri De Luca. Dunque è un Libro Grosso.
E’, anzi, un ciclo di libri di poesia e non scelgo a caso la parola ‘ciclo’, il pensiero mi va proprio a Zola e ai suoi, quelli delle Soirées de Medun, parenti stretti dei nostri, quelli di Acitrezza e Palermo vicereale, la mente mi corre allo sforzo, insieme artistico e scientifico, verso una letteratura capace di costruire un ‘progetto’, magari quello di leggere il mondo senza le lenti deformanti dell’ideologia.

Un ciclo di libri, sì, ma di poesia, questa volta, una poesia che ha l’impudenza e l’orgoglio di ricordare, in questo nostro tempo tanto sconsolatamente, totalitariamente prosastico, che “una buona poesia / allunga la vita alla prosa”; una poesia che cerca di studiare, comprendere, descrivere il reale, sempre pronta a mettere il dito nella piaga delle sue contraddizioni, una poesia che, letteralmente, si inanella, in cui ogni singolo testo si incastra all’altro, in un lungo discorso, che certo non è ancora terminato, ma che ormai ha assunto le proporzioni ragguardevoli di un lungo, schietto dialogo tra il poeta e la realtà.

Mescolare, tessere temi e sogni immensi, cercare e tentare speranze, o, se preferite, seguire l’itinerario di sempre nuove ‘illusioni’ (“in poesia e in geografia Ennio è un viaggiatore”, ci ricorda De Luca) e farlo con la grazia di parole domestiche (anche se mai addomesticate), umili, ma sempre precise, tentare insomma un matrimonio acrobatico tra Lucrezio e Pascoli (e Gozzano, e Palazzeschi, certamente) è il rischio, e dunque la qualità, di questi versi, una scommessa vinta grazie a un pizzico di immaginifico che affonda le sue radici, come acutamente notato da Roversi, nel sapiente bulino magico di Angelo Maria Ripellino, che da ciascun segno cavava scintille.
Da queste radici Ennio Cavalli ha saputo far nascere frutti nuovi, che hanno il sapore spiccato e assolutamente originale di cui sanno tutte le sperimentazioni, se sono ben radicate nella memoria delle tradizioni.

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