Isabella Santacroce, Lovers

28 dicembre 2003 Articoli e recensioni
Isabella Santacroce, <i>Lovers</i>

E’ fatto di una prosa breve, Lovers, quasi di singhiozzi, che si inseguono sulla pagina, un a-capo dopo l’altro, a disegnare la storia di un’amicizia tenera e ambigua tra due giovani donne, Virginia ed Elena. " Coscientemente prendere atto che. Elena. / La sua amicizia. Il suo modo di guardarla e viverla. / Ambiguamente. Assomigliava. All’amore." E i punti fermi adombrano l’arabesco di una poesia in prosa, scontrosa e coraggiosa, che suggerisce tutti gli arresti stupefatti, i passi da gambero, le sconfitte di quello che una volta si chiamava un percorso di formazione. Come negli altri romanzi. Come in Fluo, in Destroy, in Luminal. Ma al contrario di essi, un passo più avanti, oltre la crudeltà terribile dell’elaborazione di un lutto. Esploso nella maturità del dolore.
E’ fatto di una prosa affilata, Lovers, è frutto di una scelta inattuale, che mescola i ritmi brevi al respiro lungo del romanzo e lo infetta col virus di flash istantanei, a volta di una sola parola, "multipli lampi dal tuono spezzato", come li definisce lei stessa.
E’ fatto dell’amore di una delle due, Virginia, per il padre dell’altra. Ma ciò che ci attende è un triangolo che non è un triangolo. Il mondo di Lovers, come spesso il nostro, è un mondo di rapporti esclusivamente binari. Dove si riesce a comunicare con una sola persona per volta. E quando invece si è in tanti, alla comunicazione si sostituisce la superficie brillante e vacua delle parole dai protocolli collaudati. Si va in play-back. Come la madre di Virginia. "L’atmosfera / invitava a parlare. Confidenze mai fatte. Scrigni da aprire. / Rispose e non era neppure confusa. Non le tremava / neppure la voce.Sembrava possedere quel cuore / che puoi telecomandare". Si vive di solitudini gemelle. Tutte affastellate disordinatamente nel cassetto stracolmo della nostra vita. Solitudini gemelle che per un attimo cortocircuitano e fanno scintillare il nostro parlarci di una profondità che svanisce non appena è attinta. "Due donne in cucina. / Da dietro potevano sembrare due estranee. / Da davanti una figlia e una madre."
Così il triangolo di Lovers non si risolve in un amore a due. Ma nel nulla di una solitudine al quadrato, addirittura al cubo. Se Elena muore, muore con lei l’amore di Virginia per il padre di lei, Alessandro. Elena "aveva lasciato una lettera. / Sopra c’era scritto il suo nome. / C’era scritto a Virginia con infinito amore. / Quando la lesse iniziò a gridare. / Irrigidì il corpo e la bruciò nel cuore."
E’ fatto di una vicenda con due protagoniste, Lovers, come sempre nei testi di Isabella Santacroce. Di due identità femminili che sono lo stesso personaggio. Come siamesi separate, che annegano nel sangue che schizza dalla ferita di una cesura immedicabile, di una schizofrenia fondatrice, nata dal linciaggio osceno della nascita, che per la prima volta trova il coraggio di un futuro non più ostaggio dei ricordi, di un presente che scorre e non è più immobilizzato dall’eccesso e dallo straordinario. Di un presente che ha embrionalmente accesso al passato e al futuro. Che fa i conti con realtà della sconfitta e insieme con la certezza nemmeno la sconfitta sarà capace di ridonare senso al torto subito, né, tanto meno, di sottrarre ragioni alle nostre vinte ragioni. Lovers è forse il meno pulp dei romanzi di Isabella Santacroce. E’ certamente il più terribile e crudele.
C’è chi ha detto che Lovers è una soap opera in forma di poesia. Ma non è vero. Al massimo riscopre la poesia (e dunque la sostanza di pensiero e dolore) che c’è alle radici di ogni trama. Né è con Lovers che Isabella Santacroce riscopre la trama. C’è sempre stata una trama nei suoi romanzi. Adottata e poi decostruita, evento per evento. In Lovers la prosodia versicolare la alleggerisce del romanzesco e ne fa una sorta di epica portatile, personale, quasi lirica. Mi si passi l’ossimoro. Un ibrido, inquietante e stupefacente.
Tutte le trame, non solo quelle delle soap, sono luoghi comuni, di essi si nutrono, da essi sono costituite. Chi ha dubbi al proposito rilegga con agio il Girard de La violenza e il sacro. Ma poi, se il romanziere è un romanziere di razza, da essi parte per farne qualcosa di assolutamente nuovo e diverso. Come nel caso di Lovers. C’è chi per parlare di Lovers ha indugiato righe e righe sulla corporeità e l’abbigliamento dell’autrice, su certe sue foto un po’ BDSM…
Mi chiedo: perché si fa colpa a Isabella Santacroce di mostrare il suo corpo, di costruirsi un ’personaggio’, se poi, al momento di parlare dei suoi romanzi, ci si interessa più della sua immagine, del suo corpo, appunto, e non del corpo della sua scrittura, quello sì crudelmente e coraggiosamente nudo, esposto senza difesa al vento dello scacco, della morte, del nulla che riempie tutti gli istanti che ci separano dalla pienezza della fine, dall’eccesso del buio, dallo sperpero folle e indispensabile del desiderio?

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