Immigrati: Nemmeno una telefonata

26 agosto 2004 Politica e movimenti
Immigrati: Nemmeno una telefonata

Il Prosindaco (e Pro-Sceriffo) di Treviso Giancarlo Gentilini è davvero eccezionale, nel suo campo. E il suo campo - com’è noto - è quello delle iniziative razziste e incivili. Anche se a volte (fortunatamente) qualcuna gliene va buca, lui ritenta, ostinato, vero Orlando letteralmente Furioso della Sacra Patria Padana.
Così, non contento di aver appena dovuto fare retromarcia con le pive nel sacco, dopo aver tentato di limitare gli sconti sulle tasse dei rifiuti solidi urbani ai soli ’cittadini italiani’ (lui avrebbe voluto scrivere ’padani’, ma qualcuno deve averlo sconsigliato), non soddisfatto di aver dovuto sgattaiolare via, con la coda tra le gambe, inseguito dagli abbai festosi di centinaia di cani che pretendeva di espellere dal centro cittadino, e non abbastanza impegnato a gestire lo scandalo che sta travolgendo tanti suoi incliti colleghi di partito, coinvolti in una storia assai brutta di tangenti e corruzioni (alla faccia di Roma ladrona) per la costruzione di un villaggio vacanze padano in Croazia, eccolo di nuovo alla ribalta con una nuova iniziativa liberticida.
E’ bastato che il padanissimo consigliere Fanton protestasse perché disturbato da qualche schiamazzo notturno nei pressi dei phone-center cittadini, ovviamente frequentatissimi dagli immigrati, ed ecco l’idea genialmente padana ed immediatamente partorita: Che i phone-center chiudano alle venti!
Peccato che nel mondo esistano i fusi orari e gli orari di lavoro e che chiudere prima delle 22,30 significhi impedire a molti immigrati di sentire le loro famiglie pagando prezzi accettabili, quelle stesse famiglie alle quali la Bossi-Fini si era già assicurata di impedire il ricongiungimento. Follia? No, questa è purtroppo la normalità trevigiana, il way of life di una città opulenta che - pur conscia di fondare una parte rilevante della propria ricchezza e della propria agiatezza sul lavoro regolare e irregolare di migliaia di immigrati - pretende poi di liberarsene al suono della sirena. Per loro niente case, per loro niente moschee, niente scuole, niente accoglienza, non pubblica perlomeno, niente panchine. Niente da stupirsi allora se oggi sentiamo Gentilini chiamare «perdigiorno» i lavoratori che affollano, a fine giornata, i phone center cittadini, né se il suo sodale, il giustamente noto Senatore ed Improntologo Stiffoni, li definisce «covi di terroristi». Né ci sarà da attendersi alcuna risposta sensata alle domande furenti di Gianni Rasera, presidente di Fratelli d’Italia, che si chiede perché allora non si chiudano anche le osterie e i bar, che certo - pur essendo assiduamente frequentate dal Pro-Sceriffo - creano schiamazzi e rumore enormemente superiori, né a quelle del portavoce dei Verdi, Paride Danieli che si domanda se tra le Verità accettate dalla Piccola Patria Padana «esista il concetto di fuso orario».
E a camminare lungo le vie della città, sotto i portici, a sentirsi scivolare sulla pelle l’indifferenza dei trevigiani intenti allo shopping, nasce anche la paura in cuore che questa cittadina non trovi stavolta le ragioni che l’hanno portata a mobilitarsi in massa per i quattrozampe. E questo non sarebbe bello.
Ma si respira anche altro, tra Piazza dei Signori e il Ponte di San Martino: l’imbarazzo sempre più evidente di tanti trevigiani, la rabbia degli immigrati, quella dei protagonisti del volontariato. A materializzare la convinzione che, se davvero, come suggerisce il pro-Sceriffo, gli immigrati decidessero di «arrangiarsi», allora forse i problemi nascerebbero davvero.
Io, per me, posso dirvi questo: abito vicino allo stadio di calcio, a meno di 40 metri in linea d’aria da due phone center, li vedo dalla mia finestra che si affaccia su una ex-strada normale che il Pro-Sceriffo e i suoi urbanologi (urbanisti mi pare troppo) hanno trasformato in una tangenziale a tre corsie che corre rasente alle mura quattrocentesche che racchiudono Treviso, facendo schizzare i decibel di inquinamento acustico a livelli siderali, ma non mai sentito schiamazzo alcuno.
Nulla che provenisse da bocche extracomunitarie, almeno. Tutto lo schiamazzo qui è schiamazzo nostrano, quello degli ultras quasi nazi del Treviso Calcio, o dei tifosi che ti parcheggiano prepotenti e padani fin dentro la cucina di casa. Ma il calcio si sa, come il vino, fa parte della nostra cultura…
Voglio essere sincero sino in fondo. Una volta, sì, ho sentito qualcosa. Qualche giorno fa, la sera della partita Italia - Ghana. Erano un paio di ragazzetti neri usciti per l’appunto dal phone-center e urlavano felici, a squarciagola: «Italia-Ghana: UGUALI!», che è il grido più bello che mi sia mai capitato di sentire dopo un incontro di calcio. Ma più che uno schiamazzo, mi è sembrato un auspicio, un sogno, l’utopia che bussava alla mia porta.

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