Il discorso prima della parola - Autoanalfabeta incontra Paolo Giovannetti

Autoanalfabeta University of Utopia 31 gennaio 2015 01. Autoanalfabeta University of Utopia
Il discorso prima della parola - Autoanalfabeta incontra Paolo Giovannetti

Quante parole si sono sprecate, parlando della canzone d’autore, per ribattezzarla “poesia”! Da trent’anni a questa parte (chi scrive se ne sente anche un po’ responsabile) è diventato una specie di luogo comune affermare che la canzone, e in particolare la canzone di qualità, costituisce un sostituto della poesia. Anzi: che la è la più vera poesia del nostro tempo, quella che la “gente” davvero vuole, quella che la “gente” davvero capisce. E così via. Oggi, in molti libri scolastici trovate De André dove un tempo c’era Pascoli, e nessuno più si stupisce se un testo di Vecchioni viene commentato per illustrare l’efficacia di una figura retorica o per aiutare il giovane lettore ad acquisire una migliore cognizione di sé nello spazio. Un’operazione analoga si comincia a fare, mi sembra, anche con il rap: sdoganato precocemente dalla critica letteraria (e fin qui tutto bene), ma poi ricondotto al mondo delle belle lettere, quando invece la sua natura sanamente illetterata e la sua allergia al bello convenzionale avrebbero dovuto chiedere altro.
E insomma: se davvero la canzone (lasciamo perdere il rap) fosse così prossima alla poesia, perché dagli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso a oggi ci sono state così poche cantautrici, perché così poche donne hanno praticato la canzone d’autore? Facciamo qualche nome, per intenderci: Cristina Donà, Carmen Consoli, per cominciare, e su un piano decisamente più commerciale Gianna Nannini e Paola Turci, che per di più non sempre scrivono le proprie canzoni e anzi sono famose soprattutto per pezzi composti da altri. L’elenco è quasi finito, se pensiamo a chi ha avuto un minimo di successo. Certo, donna è una grande musicista (e tanto altro ancora) come la oggi settantaseienne Giovanna Marini. E fra le giovani e giovanissime, ci sono talenti indubitabili come quelli di Debora Petrina o di Maria Antonietta.

Ma resta il fatto. Per noi italiani, la canzone d’autore esige il corpo maschile per esprimersi compiutamente. Scorrete l’elenco di coloro che hanno cantato al Club Tenco: le donne ricorrono ogni quattro o cinque interpreti maschi. Non l’altra metà, ma un quinto o un sesto del cielo.
Ma perché? Troppi ragionamenti ci vorrebbero per spiegare la cosa, per venirne a capo nel modo giusto. Meglio metterla giù con un po’ di radicalità. Il papà testuale (l’archetipo) della canzone italiana di valore è qualcosa di pesantemente maschile e anzi forse maschilista, e si aggira nei dintorni della premiata ditta Mogol-Battisti. La rassettatura di quel modello, in parte contemporanea ma soprattutto successiva (fra Tenco, De André, Guccini, De Gregori e magari Dalla, passando attraverso Fossati), ha mutato moltissimo, ma non la sostanza dell’impostazione. La canzone italiana poetizzante esprime un maschio in crisi, a disagio in un mondo ostile, annaspante di fronte a un’identità femminile metamorfica, sempre meno rassicurante. La produzione d’autore dice di un uomo che ha paura della realtà, che ha paura delle donne. E il fare testo, il fare poesia si è adeguato a un simile modello “morale”. Che poi questo uomo, e queste donne, e il loro pubblico, fossero soprattutto di sinistra, è un bellissimo fattore complicante: ha reso e rende sempre più difficile affrontare con serenità certe questioni. In parole povere: ci piace una realtà musicale-letteraria che però, se ben capita, ci ripugna, deve ripugnarci; quella canzone a ben vedere contiene il peggio di noi, di noi maschi - specie se di sinistra. E insomma.

Nessuna meraviglia se una certa soggettività femminile in Italia ha preferito strade molto differenti da quelle della qualità testuale esibita. Lasciamo da parte le tante dive (da Patty Pravo a Laura Pausini) che intelligentemente - e seduttivamente - mettono in scena la canzone come prodotto di una personalità altrui capace di transitare attraverso il loro corpo-voce rinascendo a nuova vita. E pensiamo a qualche nome d’avanguardia: Maria Pia De Vito, Petra Magoni, Cristina Zavalloni valorizzano l’“eterno virtuosistico” del jazz, la sua possibilità di mobilitare risorse espressive che non si incarnano in una parola pienamente semantica, che trasformano la voce pura in un discorso prima e oltre le parole.
Quasi l’opposto della Poesia, a ben vedere. Qui, più che un soggetto, c’è uno stile e magari una tecnica, che presto diventano altro. E parlano. Ma quel che dicono non si capisce troppo bene, non è razionalizzabile in un formula - e per fortuna!

Paolo Giovannetti

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