Il caso Villa

28 dicembre 2003 Articoli e recensioni
Il caso Villa

Emilio Villa è certamente, voglio dirlo senza alcuna remora, uno dei maggiori autori del nostro secondo Novecento e questo, desidero affermarlo con altrettanta chiarezza, tra gli addetti ai lavori tutti lo sanno, anche se pochi, poi, si ricordano di dirlo.
Eppure Villa resta, ancora oggi, una sorta di desaparecido. La sua opera poetica è sostanzialmente inedita in Italia e quel poco che è stato pubblicato lo è stato grazie al coraggio di editori piccoli e intelligenti, a partire dalla Coliseum che pubblicò un primo volume, poi rimasto solitario, delle sue opere poetiche, oggi ormai introvabile. Esiste, insomma, e sarebbe ora che scoppiasse con tutto il clamore che merita, un ’caso Villa’, che potrà considerarsi risolto solo quando la miopia dei nostri editor si deciderà finalmente ad aprire le porte alle parole e ai pensieri di una figura che certo non merita di restare in anticamera, mentre nelle stanze che contano ci si balocca tra conti economici e strategie di marketing, peraltro spesso assai poco efficaci. L’editoria è certo un’impresa privata dedita al profitto, ma dovrebbe serbare un minimo di pudore nello svolgere quella funzione sociale e culturale alla quale, almeno ufficialmente, aspira. Ostinarsi a ignorare Villa equivale ormai ad una censura, certamente ideologica, contro il turbine di libertà, immaginazione, radicalità di pensiero che è celato nei suoi versi e più in generale nella sua multiversa attività di traduttore, critico d’arte, pittore.
Per parlare di Villa ho incontrato Aldo Tagliaferri, che da anni si batte perché a Villa sia riconosciuto il rilievo che merita e che certamente ne è il conoscitore più esperto e raffinato.
La personalità artistica di Villa è assai complessa, dalla poesia alla pittura, dalla traduzione alla critica d’arte e certamente il ruolo che egli ha svolto nella cultura italiana dagli anni 40-50 in avanti è stato decisivo. Com’è possibile che un intellettuale ed un artista del suo livello sia rimasto sinora in ombra, quasi confinato dietro i cavalli di frisia dell’indifferenza dalla quasi totalità della critica italiana?
La complessità del ruolo di Villa si profila col passare degli anni: negli anni trenta egli è soprattutto uno studioso di lingue semitiche antiche e di cultura micenea e, in privato, un poeta; negli anni quaranta si occupa con maggior slancio di arti visive e in quelli cinquanta, dopo la parentesi brasiliana (salutare perché lo mette in condizione di ampliare notevolmente il proprio orizzonte culturale) le sue attività straripano in diverse direzioni. I suoi testi poetici e le traduzioni non rientrano nei programmi dei maggiori editori, ma anche più tardi, negli anni sessanta, quando la sua fama di scopritore di talenti ormai è affermata, gli interventi più significativi appaiono soprattutto in cataloghi o in edizioni quasi clandestine ("esoedizioni", le battezzò lui) accompagnate da opere di artisti suoi amici (Burri, Nuvolo, Novelli e altri). Da un altro punto di vista, la complessità delle attività villiane riflette quella di un secolo convulso che egli ha attraversato incontrandosi e scontrandosi con eventi culturali e sociali di enorme portata: nascita e fine di dittature e di colonialismi, crisi delle ideologie, globalizzazione dei codici culturali. Sarebbe poco produttivo accostarsi alla poesia di Villa senza tener conto di questo sfondo convulso. La figura di Villa è stata familiare e rimane notissima entro la cerchia degli artisti, cioè di coloro che lo frequentavano personalmente e che spesso avevano un debito di riconoscenza nei suoi confronti. Esemplare è il caso di Rotella, che mai manca di ricordarlo nelle sue recenti interviste, ma non dimentichiamo che in anni più recenti hanno ancora collaborato con lui artisti come Castellani, Parmiggiani e Bonalumi. E’ sintomatico che ancora oggi siano gli artisti (di solito i più anziani) e i poeti (di solito i più giovani) a chiedere con maggiore insistenza sue notizie. Delle istituzioni Villa non si è mai curato. Non sarebbe esatto, pertanto, sostenere che la cultura italiana abbia snobbato Villa, mentre risulta evidente che, segnatamente a partire dal 1950, egli ha aperto un solco tra il proprio percorso intellettuale e gli indirizzi che caratterizzarono la cultura italiana istituzionale del ventennio successivo. Da allora, come sai, ha scelto di scrivere spesso in francese, ma la sua produzione maggiore comprende anche un grandissimo numero di testi in latino, in greco e in altre lingue, e sporadici ma potenti ritorni alla lingua madre. Ancora a proposito del "confinamento", non dimenticare che, per quanto attiene alla poetica, i suoi punti di riferimento, a partire appunto da quel fatidico 1950, sono sempre più spesso stranieri e comprendono Pound e Joyce, Breton e Artaud. Direi che quella consumata tra l’Italia ed Emilio è stata una separazione consensuale, a partire dal fascismo e quasi fino ai giorni nostri. Alcuni giovani e valenti studiosi hanno peraltro contribuito, negli ultimi anni, a far conoscere vari aspetti della sua poliedrica attività culturale, e ciò è promettente. Quanto all’industria delle antologie della letteratura italiana del Novecento, essa è talmente faziosa e clientelare che spesso non merita di essere messa in discussione. Tutto sommato, tenendo conto dei premi che sono stati attribuiti nell’ultimo decennio all’opera di Villa, parlerei non tanto di "confinamento" quanto di imbarazzo professorale, molesto solo in quanto si mette su un piedistallo il poeta solo per evitare di entrare nel merito della questione.
Villa fu certo uno spericolato innovatore, uno sperimentatore raffinato ed inesausto, ma quali furono i suoi rapporti con le cosiddette Nuove avanguardie?
Villa è stato il più esplicito, produttivo e inflessibile continuatore delle avanguardie che la cultura italiana dell’ultimo secolo possa vantare. Non per caso molti poeti appartenenti a quella che chiamiamo neoavanguardia sono stati suoi amici e ammiratori: da Nanni Balestrini a Corrado Costa, da Patrizia Vicinelli a Adriano Spatola e a Giulia Niccolai. Senza parlare dei molti poeti francesi del Domaine Poétique che lo hanno conosciuto e frequentato. Ritengo del tutto fuorviante e sterile ogni conato polemico inteso a opporre la neoavanguardia italiana a Villa, sebbene sia consapevole, avendo avuto la ventura di conoscere entrambi, della glaciale freddezza che distinse il non-rapporto personale tra lui e Sanguineti . Vari fattori sono entrati in gioco, tra i quali quello generazionale e la teorizzazione politica di quest’ultimo, ovviamente distante anni luce dalla netta distinzione tra poesia e politica predicata da Villa, intellettuale solitario e disorganico per costituzione, ma non meno antifascista di Sanguineti. Di episodi del genere è ricca la storia della letteratura mondiale, e non è una grande novità constatare che i poeti sono anche capaci di atteggiamenti impoetici.
Qual è, secondo te, la ragione dell’interesse delle ultime generazioni di poeti nei confronti di Villa?
Forse sarebbe più interessante conoscere la tua risposta su questo punto, visto che, nel primo semestre del ’94, hai fatto pubblicare dei testi di Villa sulla rivista "Baldus", ma non intendo sottrarmi all’onere della risposta, sia pur concisamente. Assistiamo, peraltro non solo in Italia, a una strabiliante proliferazione di poeti: ai liberi professionisti, che tradizionalmente dedicavano alle muse parte del loro otium, ora si aggiunge una pletora, ben più temibile, di professori e di giornalisti. D’altra parte notiamo, spesso accalcati intorno ai premi letterari, altri accademici che, dall’alto del loro sapere disciplinare, laureano (nel senso di cingere col lauro) modesti adepti di tecnologie linguistico-semiologiche destinati a leggersi e a recensirsi tra di loro. Sono le conseguenze del genere di sapere disciplinare e di servilismo cattedratico diffusi in molte università. Le maggiori opere villane irrompono in questo bailamme indicando vie d’uscita poco battute, attirando la nostra attenzione sulle pieghe più segrete delle etimologie, sull’energia ricavabile da ogni meticciato culturale e linguistico, e sulla problematica relativa all’evolversi dei miti. Quella di Villa è soprattutto una poesia della rivisitazione e del ritorno al primordiale, e già per questo interessa ai giovani. Egli torna, in particolare, al mito di Babele, ma ne rinnova la portata in quanto vede in esso l’insorgere non della confusione ma di una libertà possibile, non la verifica di una ortodossia religiosa ma la conferma di una visione puramente antropologica, orizzontale, di quanto resta enigmatico e incalcolabile nella nostra esperienza. Chi non è succube della cultura istituzionale cui sopra ho accennato, chi insomma, non riconoscendo le presunte differenze tra un barone "rosso" e uno "nero" o "biancofiore", sta ancora elaborando il proprio mito delle origini, sa apprezzare questa promessa di libertà, nella quale si prolunga l’utopia delle avanguardie.

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