Il Postmoderno è nostro: giù le mani!

23 febbraio 2004 Saggi
Il Postmoderno è nostro: giù le mani!

Si tratta della trascrizione del mio intervento alla Tavola rotonda conclusiva del convegno «Il Gruppo 63, quarant’anni dopo», tenutosi a Bologna, nel 2003. Alla Tavola rotonda hanno partecipato anche Gabriele Frasca, Tommaso Ottonieri, Gregorio Scalise, Mauro Covacich, Andrea Cortellessa, Milly Graffi, Paolo Valesio.
Presto saranno disponibili tutti gli Atti a stampa.

Cercherò di essere breve, per quanto possibile, anche perché - non se ne abbia a male nessuno - mi pare che questa tavola rotonda sta rischiando di trasformarsi in una sorta di discount di tutto e di più e questo mi rende particolarmente difficile cercare di tirare, per quanto mi riguarda, le fila, in maniera da avere poi l’obiettivo fisso su ciò che ritengo davvero indispensabile esplicitare qui e adesso.
Eviterò, perciò, qualsiasi tipo di memorialistica e di aneddotica sulla mia carriera poetica, cosa che trovo estremamente interessante nel caso delle storicizzazioni, assai meno nel caso di una discussione come questa, che dovrebbe arrivare a delle conclusioni: il rischio, altrimenti, è di trasformare il nostro dibattito in una grande narrazione, certamente gradevole, ma che evita, però, di arrivare al punto del problema.
Da questo punto di vista sono particolarmente grato agli interventi di Frasca, di Scalise e di Graffi, perché mi pare si siano presi le loro responsabilità, ed era, credo, quello che eravamo chiamati a fare qui, e, siccome qualcun altro non l’ha fatto, la responsabilità poetica del Gruppo 93 me la prendo io, e sono felice di farlo, perché non si dica che poi non si è parlato di questo.
Il problema del Gruppo 93 ovviamente non è il problema di come sia nato, di chi ne facesse parte, o di quando sia nato, o morto, piuttosto sarebbe interessante metterci, infine, d’accordo su cosa fosse in realtà.
Per iniziare a rispondere a questa domanda vorrei ripartire da una frase che ha detto Sanguineti stamattina, una frase molto interessante, che era: aprés moi le déluge! Bene, a questo io mi sento di rispondere qui, con estrema chiarezza: et moi, je suis le déluge… E aggiungo: e sono nato a Chiasso. Credo che questo chiarisca di partenza qual è la mia posizione…
Esistono vari tipi di avanguardia (quella storica, quella neo, quella neo-neo - non voglio sembrare né sgradevole né polemico, è proprio il bisogno di essere sintetico a rendermi forse eccessivamente sbrigativo, perché so che siete tutti stanchissimi come me, e avete voglia che si arrivi al ’dunque’) ma esiste poi un tipo di avanguardia particolare, che io purtroppo conosco molto bene, che è l’avanguardia mio malgrado.
Io sfido chiunque a leggere i testi, le posizioni teoriche del Gruppo 93 e a tirare fuori da quelle, da quelle dei poeti, non da quelle di chi, intorno al lavoro poetico, ha, come era lecito fare, teorizzato, analizzato, concluso, ma nelle posizioni coscienti dei poeti, dicevo, sfido chiunque a trovare un solo punto in cui il Gruppo 93, o almeno il gruppo che si riferiva a Baldus, abbia mai pensato di, o voluto essere un’avanguardia.
La rivista che abbiamo fondato si chiamava «Baldus», non «Sedici», e questo è un riferimento preciso a una certa Tradizione più che a una certa Avanguardia, e quando ci si riferiva al Gruppo 63 (che se non ci fosse stato avremmo dovuto inventarlo) era evidente la nostra scelta precisa di campo, una scelta che faceva riferimento all’oralità di Pagliarani, o all’opera-poesia di Balestrini, certo, ma faceva riferimento anche a Vicinelli, a Costa, a Spatola più che a certa produzione strettamente ’letteraria’ e in ’lingua. E prima di loro a Villa. Per quanto mi riguarda potrei citare, addirittura Jahier, Leonetti, addirittura Zanzotto, o addirittura certo Fortini ’politico’. Ma certamente Sanguineti ha ragione: aprés lui, le déluge. Il Gruppo 63 costituisce davvero la fine, o meglio una fine. Quella del Moderno e del Novecento.
Pensate alle date: il Gruppo 63 è stato fondato nel ’63, il Gruppo 93 è stato fondato nel 1989, che è una data che da sé dice tutto, la data in cui il "secolo breve" definitivamente si chiude.
Ma c’è altro da dire a proposito del Gruppo 93 come supposta neo-neo-avanguardia… Per fare un’avanguardia - e sono grato a Curi di averlo sottolineato più volte, io sono assolutamente d’accordo con lui - occorrono le condizioni storiche perché questa avanguardia possa vivere e realizzarsi. L’Avanguardia è sempre anche un problema di contesto e non solo di testo. L’unico aneddoto che mi permetto è, quindi, citare il titolo di una mia poesia di quegli anni, Il poeta chiede che anche la realtà faccia il proprio dovere. Era il mio modo di esprimere esattamente quello che diceva Curi: noi non potevamo essere un’Avanguardia, non avevamo una filosofia della storia che ce lo permettesse, dunque non avevamo una direzione, un inizio e una fine, un davanti e un dietro, non avevamo un mondo bipolare, ma globale, non avevamo la Rivoluzione ma (poveri noi!) il Pensiero Debole (per rispondere a quello che diceva Valesio, posto che davvero occorra essere di sinistra per forza, per essere d’avanguardia). Noi non volevamo interrompere la comunicazione, noi quella comunicazione la volevamo ripristinare. L’ultimo libro di Ottonieri ha un titolo che credo sia splendido perché è in qualche misura la metafora dell’avventura del Gruppo 93, si chiama «Contatto», noi abbiamo cercato un contatto: se ci interessava Costa, se ci interessava la Vicinelli è perché loro cercavano un contatto che passava attraverso il corpo, attraverso la voce della poesia. In questo ci siamo confrontati, non potevamo fare altrimenti, anche con il resto del Gruppo 63. Abbiamo imparato moltissimo da tutti loro, abbiamo dialogato con loro, ma non abbiamo mai accettato di essere (per amor loro, o perché magari così faceva comodo ai loro avversari)un’avanguardia nostro malgrado, e questo è il luogo in cui ciò andava detto e sono felice che mi sia stata lasciata la responsabilità di dirlo.
Noi ci siamo ritrovati ad operare nella condizione degli artisti romanici: avevamo solo rovine e con queste rovine dovevamo ricostruire. La scoperta che il Gruppo 93, o meglio il Gruppo Baldus, fa della fine della funzione normativa della Tradizione, a cui si riferiva giustamente Cortellessa, è datata ad uno scritto di Biagio Cepollaro del 1990. È da quel momento in avanti che per noi è chiarissimo che non c’è nessuno scarto da fare rispetto a una Tradizione, a meno che noi non volessimo attribuire la funzione di rappresentare la Tradizione all’esperienza (essa sì manierista e nata vecchia) dei nostri quasi coetanei di «La parola innamorata» e questo, non se ne abbiano a male, non era proprio il caso che avvenisse, perché buona, o cattiva che fosse, se epigonica fu la poesia dei poeti del ’93 (e non lo credo affatto), ancor più epigonica fu (non delle stesse cose certo, del lirismo romantico, della soggettività, ma altrettanto epigonica) «La parola innamorata». Inoltre, si tratta di due fenomeni che nascono all’interno dello stesso milieu, in qualche misura della stessa città, Milano, in qualche misura - rileggete i numeri di Alfabeta - grazie all’attenzione non prevenuta, aperta, proprio di alcuni dei componenti del Gruppo 63 che, per altro verso, sono passati per molto tempo in Italia come degli ideologi chiusi. Porta faceva parte del Gruppo 63 ed è stato Porta a vedere del buono in quella poesia. Che sia più, o meno buona non è importante discuterlo qui ed oggi, io credo che qui sia importante, però, ristabilire un minimo di obiettività storica.
Il Gruppo 93 quand’è nato non era un’Avanguardia né mai lo è diventato, perché gruppo non è sinonimo di avanguardia, e il nostro rapporto con il 63 è stato anzi continuamente mediato - direi inquinato nostro malgrado - da quella che qui, permettendomi un gioco di parole con i titoli di due libri di Harold Bloom, chiamerei la anxiety of misreading.
Io dall’89 cerco di spiegare a tutti, periodici, gazzette, amici, parenti, colleghi poeti, che non sono un poeta d’avanguardia, e nessuno mi crede. Io spero che da questo momento in avanti, come si è storicizzato il Gruppo 63, ci si renda finalmente conto che il Gruppo 93 era tutt’un’altra cosa. Sanguineti, in quegli anni, a proposito del 63 diceva: abbiamo solo un orizzonte comune. Chi ha assistito a questo convegno che ha riportato l’attenzione su una parte del Gruppo che qualcuno aveva dimenticato, sa ormai che il Gruppo 63 non è stato solo letteratura sulla pagina, è stato anche altro, e almeno noi del Gruppo 93 l’abbiamo vissuto molto come altro. Io ho ascoltato prima Spatola, solo dopo ho letto Sanguineti. Capita!
È stato importante per noi confrontarci con la loro esperienza, ma se loro avevano solo un orizzonte comune, noi non avevamo nemmeno quello, avevamo da costruire anche quello e abbiamo provato a farlo, rimettendo insieme i pezzi, a partire dall’89 e a partire da un postmoderno che per noi non era un punto d’arrivo, non era una scelta, era uno stato di fatto, un contesto, non un ismo a cui aderire, è per questo che allora parlavamo di postmodernismo critico: perché nell’89 questa generazione, che come giustamente ha detto Frasca è la prima che è nata col televisore, ha iniziato a vivere letterariamente proprio mentre crollava il muro di Berlino, e da quel momento in avanti nel mondo è iniziato qualcosa che tutti noi non sappiamo ancora cos’è, ma che certo appartiene integralmente a noi e alla mia generazione, così come il boom economico e il mondo bi-polare appartenevano integralmente a loro, al Gruppo 63.
E allora, per favore, almeno questo lasciatecelo: il Postmoderno è nostro… Giù le mani!

Altro in Saggi

1 Messaggio

Altro in Teoria e critica