Il Muro di Librino

L’Unità, 2009 14 giugno 2009 Letteratura e arti
Il Muro di Librino

Se si arriva a Catania in aereo, percorrendo la superstrada che porta in città, una delle prime cose che si vede sono le torri di Librino, che svettano gigantesche su un ammasso informe di case: un nucleo enorme, impressionante.
Le torri, - e tanto altro che attorno alle torri non è mai stato realizzato – le ha progettate l’architetto giapponese Kenzo Tange negli anni 60, immaginando una vera e propria città autonoma, dotata di tutti i servizi, un piccolo paradiso.
Gli edifici sono stati costruiti. Poi basta. Dopo il cemento, il nulla. E così, pian piano, Librino è diventato quello che è oggi. Librino, insomma, nato per essere un paradiso, un segno di riscatto della città, è diventato un inferno, un inferno della razza dello Zen a Palermo, o delle Vele di Scampia, a Napoli.
Nessuno sa quanta gente viva in realtà Librino, certo più di 80.000, e siccome solo circa 40.000 risultano allacciati ai servizi essenziali (luce, elettricità), questo significa che l’altra metà, che pure anagraficamente vi risiede, ne è priva.
È proprio qui che Antonio Presti, il mecenate ed artista siciliano, inventore della Fiumara d’Arte, l’uomo che ha usato l’arma più devastante dell’abusivismo mafioso, il cemento, per disseminare il territorio tutt’intorno al fiume Tusa di splendide sculture di autori di fama internazionale (da Consagra a Nagasawa, a Tano Festa, giusto per fare qualche nome), ha deciso di giocare il suo nuovo azzardo, la sua nuova scommessa: quella di promuovere il riscatto di una periferia tanto enorme quanto abbandonata, proprio attraverso l’arte. A Librino, nelle scuole e nelle case di Librino, ha portato in questi anni decine di scrittori, poeti, artisti di tutto il mondo, poi, non pago di questo, ha immaginato di trasformare tutta Librino in un grande museo d’arte contemporanea a cielo aperto.
E’ nata così la Porta della Bellezza, inaugurata qualche giorno fa. Lungo le spallette di un enorme cavalcavia che taglia a metà Librino, ha realizzato l’opera d’arte in terracotta più grande del mondo, l’ha fatto con un manipolo di artisti, ma soprattutto l’ha fatto con i bambini delle scuole del quartiere, migliaia di bambini, che hanno realizzato i particolari delle sculture, che li hanno firmati, che si sono riconosciuti, per una volta, non nella violenza dell’esclusione, ma nell’identità inclusiva di un’opera d’arte collettiva. Presti, in questi anni, ha salito tutte le scale del quartiere, ma non quelle politiche, né quelle mafiose, quelle delle case, delle associazioni, delle scuole, degli oratori. E alla fine ha convinto Librino a provare ad essere diverso. Gli ha donato la sua utopia. Perché Presti investe le sue ricchezze con lo stesso meraviglioso, noncurante cinismo con cui Landolfi metteva i suoi danari sul tavolo verde, per il gusto di perderli, economicamente parlando, ma di vederli poi realmente fruttare emozionalmente, sentimentalmente. E’ questo che intende quando parla di ‘dono’, di un atto cioè gratuito, che si giustifica solo con la sua stessa esistenza, con il suo accadere. E questo accadere è un accadere integralmente politico, perché vuole fondare un’identità, risvegliare una dignità, perché vuole, cioè, costruire una Polis dove oggi è solo un disastrato serbatoio di voti, un ammasso di cemento e abbandono, un intrico di rabbie, violenze, sopraffazioni, frustrazioni. E non perché questa Polis sia poi, domani, rossa, o nera, o azzurra, ma più semplicemente perché sia una Polis capace di scegliere, in vera libertà, il suo destino.
Per farlo ribalta tutte le strategie: come un Von Clausewitz dei sentimenti e dell’arte, studia la sua guerra e decide che per una volta sarà l’arte a suonare le trombe della riscossa, che non si limiterà a intonare i violini per questo, o quel vincitore. E a chi gli chiede perché non investa i suoi capitali per fare fogne, o allacciamenti elettrici, risponde che quello è compito della collettività, non di un singolo, che quello non può essere un Dono, perché è un Diritto. Che è compito della collettività esigerlo e di chi la governa realizzarlo al più presto.
Lui smonta l’alibi: dove è degrado, porta arte, parole, segni, suoni. Poi rimane a guardare, in attesa di vedere cosa accadrà quando i bambini che hanno modellato le formelle della Porta della Bellezza saranno grandi, quando toccherà a loro decidere che ne sarà di Librino.
Se, nel frattempo, i politici interverranno, allora per una volta l’arte sarà stata utile a qualcosa di pratico, se invece continueranno a latitare dovranno farlo sotto gli occhi del mondo, che quell’arte non potrà fare a meno di guardare, con tutto il suo contorno di sfruttamento e violenza urbana.
L’arte indica la ferita, ne immagina la guarigione e così, in qualche modo, tanto fragile, quanto decisivo, le dà inizio. Ma sono altri i medici veri e l’arte li chiama ad assumersi le loro responsabilità. Così all’inaugurazione della Porta della Bellezza c’erano migliaia di persone, i messaggi del Presidente della Repubblica e del Papa, centinaia di giornalisti, televisioni di mezzo mondo: tutti a guardare Librino, tutti a restare stupefatti, vedendo, per la prima volta, quella che è da sempre l’altra faccia del ghetto: il sogno del riscatto.


La "Porta della Bellezza" è stata costruita con oltre 9.000 forme di terracotta realizzate da 2.000 bambini del quartiere sotto la guida degli artisti coinvolti.
E’ lunga circa 500 metri e contiene 13 enormi opere ispirate al tema della ‘Grande Madre’
Il critico d’arte Ornella Fazzina ha selezionato gli artisti Giovanni Cerruto, Michele Ciacciofera, Fiorella Corsi, Rosario Genovese, Lillo Giuliana, Italo Lanfredini, Simone Mannino, Pietro Marchese, Giuseppina Riggi, Nicola Zappalà, e alcuni allievi dell’Accademia di Belle Arti di Catania.
Hanno collaborato alla realizzazione dell’opera e all’enorme lavoro organizzativo che l’ha preceduta Gian Franco Molino, Paolo Consoli e Paolo Romania, della Fondazione Fiumara d’arte, la poetessa Maria Attanasio e le due architette Elisa Ossini e Stefania Vasques.

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