I Poeti con la Posteggia

www.absolutepoetry.org 7 luglio 2010 Letteratura e arti
I Poeti con la Posteggia

La Posteggia a Napoli, come probabilmente qualcuno di voi lettori già sa, è quell’orchestrina girovaga (usualmente non più di tre elementi) che si muove da ristorante a ristorante, allietando i commensali con l’esecuzione di brani della tradizione popolare: si va da Scalinatella, a Torna a Surriento, via Malafemmena e Munasterio e’ Santa Chiara. Tutte meravigliose canzoni, sia chiaro, ma eseguite in un contesto che ne deprime radicalmente ogni qualità.
Musica da intrattenimento, insomma, oramai a quasi esclusivo consumo di turistame giapponese, o alemanno, o yankee, a volte eseguita da ‘maestri’ nemmeno troppo rozzi e privi di gusto e abilità musicale, elettronicamente e digitalmente spesso piuttosto evoluti, a volte, ormai,con tanto di Sound System portatile e microfono ad archetto. Un misto,un po’ inquietante, di piano bar e neo-melodico tarantellato.

Peraltro la Posteggia vanta tradizioni antichissime, ben più nobili di quelle attuali. C’è chi addirittura ne ipotizza una discendenza da rapsodi, jaculatores, trovieri.
Di certo i Posteggiatori hanno avuto la loro importanza nella vita sociale della città, hanno una corporazione riconosciuta presso il Sedile del Molo già intorno al 1569 e, alla metà del Sedicesimo, nomi come quello di Sbruffapappa, Masto Ruggiero, o Ciullo o’ Surrentino erano celeberrimi a Napoli, magari più di quanto lo sarebbe stato, di lì a un po’, di quello di Metastasio, anche se ahimè, non dotati dello stesso genio creativo.
Qualche tempo dopo, intorno al Diciannovesimo (all’altezza del Grand Tour, per capirci, dunque al tempo di un oramai incipiente turismo) proprio a loro si deve l’invenzione della Parlèsia, il gergo segreto utilizzato poi da moltissimi musicisti napoletani, fatto apposta per non essere compreso da clienti e gestori dei locali dove si teneva la Posteggia

Perché vi sto parlando di Posteggia? Ma perché è un po’ di tempo – e certo anche voi ve ne sarete accorti – che in Italia è sempre più diffuso l’antropotipo del Poeta con Posteggia.

Sia chiaro: non mi riferisco ai colleghi, e ce ne sono di eccellenti anche in Italia, che fanno spoken word, o spoken music, se preferite, o anche, per i palati più fini, poetry spoken music. No. Mi tirerei la zappa sui piedi, è quello che faccio anch’io, spesso peggio di molti di loro.

(1 -noterella teorica - guarda a piè dell’articolo )

Mi riferisco piuttosto agli ormai tanti (tantissimi, troppi) poeti ‘tradizionali’, lineari, paladini della poesia scritta o morte, quelli sempre pronti a bollare con un ghigno di sufficienza ogni timida avance a proposito delle radici e delle caratteristiche orali della poesia, quelli per i quali la parola ‘cantautore’ è una sorta di insulto, o marchio d’infamia letteraria.
Ecco, proprio loro, i Silenti Custodi dell’Arte, non paghi di affollare con la loro incongrua presenza festival e rassegne di mezz’Ytaglia, ora han pensato bene di portarsi dietro anche tamburi, flauti e chitarrini e se ne vanno in giro con musicista al seguito…

Voci ben informate mi hanno sussurrato di un celeberrimo poeta milanese, paladino della poesia muta, anzi mutissima, praticamente omertosa, che attualmente girerebbe palchi e pedane accompagnato da chitarrista. Sarà vero?
So per certo, però, che il poeta più pio d’Ytaglia ha messo su addirittura un’associazione o fondazione, o il diavolo solo sa che ‘one’, dedicata ai rapporti tra musica e poesia, a cui partecipano tutti, poeti lineari e cantautori, ma che singolarmente ignora chi spoken word e spoken music li fa da anni (come dire: abbiamo rapporti da buoni vicini, cantautori cari, ma poi ognuno a casa sua e soprattutto noi ‘paroni a casa nostra’. Vi sembro prevenuto se mi viene in mente l’aggettivo: gesuitico?).
Il tutto ovviamente con la complicità di uno dei ‘più poetici cantautori’ nostrani.

[Parentesi aperta: ma che significato avrà questo trasformarsi della poesia, da che era sostantivo, poesia appunto, in aggettivo, ’poetico’, attribuibile praticamente a tutto e anche a di più? A me pare segnale infausto, ma spero di sbagliarmi, ovviamente. Parentesi chiusa.]

Dirò più: vi sfido a trovare un qualsiasi festival, o festivalino, o rassegna, o rassegnetta, o meeting qualsivoglia di poesia, magari frequentato, sopra e sotto il palco, esclusivamente da pasdaran della poesia neo-orfica, post-simbolista, mistica e certamente muta mutissima, praticamente a labbra cucite ed acqua in bocca, in cui non ci sia l’intermezzo musicale, l’accompagnamento in do minore per i versi berciati dagli abbeverati alla Fonte Cavallina (che parola orribile ‘accompagnamento’, nevvero? Sembra che la poesia sia una vecchia demente, un po’ ebefrenica, che va accompagnata, come se avesse bisogno di una badante in chiave di violino, brrrr che orrore!).

Non bastavano i festival fatti da una serie interminabile di interminabili reading di inqualificabili esecutori di versi, magari belli, ma resi irriconoscibili dai loro stesi padri ( e madri). No. Eppure a me sembravano abbastanza.
Per come la penso io, non è vero che una poesia detta dall’autore sia sempre ben detta, o detta meglio che se eseguita da altri, più di Lui bendicenti.
Conosco colleghi che producono pregevoli testi, che ammiro con sincerità, ma che poi li balbettano sul palco, li torturano, sbagliando magari quelle stesse intonazioni e accenti che loro stessi hanno escogitato e creato su carta.
A che serve? Perché maltrattare con la propria voce qualcosa che un lettore attento eseguirà assai meglio a mente, leggendo?
La novella ‘dantesca’ del Boccaccio è certamente nota e io credo che il buon Alighieri avesse tutte le ragioni di questo mondo per lamentarsi con il maniscalco che umiliava vocalmente la sua Commedia, eseguendola a come viene viene.
E quello che vale per il maniscalco boccaccesco credo valga per tutti, autore compreso…
Si badi che non parlo di chissà che abilità ‘performative, o di dizione, ma di semplice rispetto del testo, di quell’ anonimo rispetto di cui Rosaria Lo Russo parla qui, nel suo blog su AbsoluteVille.

Non bastasse questo, da un po’ di tempo, ecco arrivare le Posteggie…
Io penso che a un festival che sia dedicato alla poesia debbano partecipare essenzialmente dei poeti. Altrimenti perché non dichiarare da subito che quel determinato evento è dedicato ai rapporti tra poesia e musica e poi comportarsi di conseguenza, invitando soprattutto autori che fanno quello che è lo scopo di quel determinato progetto artistico?
Invece no: in Ytaglia di Festival ce ne sono tanti, per la maggior parte di poesia-poesia in cui state certi che non mancherà il concerto rock (con promozione sul campo del cantante a ‘poetico interprete, ecc..’ si trattasse pure di Lady Gaga, se serve a tirar dentro pubblico), il duo o il trio musicale, pronto a fare da intermezzo tra una lettura e un’altra…
C’è persino un noto festival letterario (un evento di quelli mega, dove ovviamente invitano soprattutto romanzieri e in cui ai poeti riservavano la stia di una stipatissima giornata collettiva e ora nemmeno più quella, che si sa che i poeti portano voti solo a Vendola) che perfino ai prosatori e ai saggisti non manca mai di accoppiare il musicista di turno.
Perché?

A cosa serve dunque tutta codesta musica? A cosa, visto che Lorsignori son sempre ad affermare che rapporto tra musica e poesia non può essercene, visto che la poesia ha già la propria, di musica…? Perché non eseguono quella e chiamano invece in soccorso ottavini, corni, arpe e putipù?

A pensarci su bene sembra quasi che i siparietti musicali debbano dare un attimo di respiro ai poveri spettatori, provati dalla noia nociva e mortale del precedente ascolto di versi maldetti, una boccata d’ossigeno che permetta loro la successiva apnea: hop! nuovo poeta, turare il naso e immergersi sino alla prossima boccata d’ossigeno, o meglio di note.
Musica da intrattenimento, Posteggia, insomma…

Ma per quale diavolo di ragione la gente dovrebbe uscire da casa propria e recarsi a vedere qualcosa che gli organizzatori, i protagonisti stessi ritengono sia un noiosissimo spettacolo, tanto noioso che gli spettatori vanno intrattenuti, vezzeggiati, premiati per la loro pazienza con un po’ di musica, con qualcosa che sappia emozionarli, divertirli, catturarli davvero…?
Eh già, perché, volenti o nolenti, quei poeti lineari lì, i balbuzienti insomma, quando salgono le scalette che portano sul palco, quello stanno facendo:uno spettacolo di poesia, all’interno di un festival di poesia. Non avranno il dovere di farlo bene? Che senso ha farlo male, tanto male da dover poi consolare il pubblico con un po’ di posteggia musicale, absit iniuria verbis nei confronti degli ottimi musicisti?
E voi ottimi musicisti, perché qualche volta non ci mandate a quel paese, quando vi invitiamo ai nostri reading spesso con il compito di guadagnare quegli applausi che da soli i nostri balbettii mai meriterebbero?
E voi, ottimi poeti ‘lineari’, paladini di un’arte muta per scelta ed elezione non fareste meglio a dire: no, per me la poesia è una roba che va letta a mente, in silenzio, le sue caratteristiche formali, la sua essenza, lo richiedono (come in realtà fate) e poi comportarvi di conseguenza (come non fate affatto), rifiutando garbatamente ogni invito a darne pubblica esecuzione in proprio (e magari anche in altrui, tanto per esser coerenti con l’assunto)?
Se non siamo artisti, poeti che fanno spettacolo di poesia, mentre diciamo i nostri versi su un palco, noi, balbuzienti lì, cosa siamo?
Piazzisti di ottave, informatori poetici, comparsanti in endecasillabi?
O che? (e mi risparmio e vi risparmio la prevedibile mia filippica a proposito del ‘corpo mistico dell’autore’, della ‘simbolicità profetica della sua voce’ e amenità consimili).
Ma, se siamo artisti, se stiamo facendo spettacolo, allora dobbiamo esserlo, farlo il meglio possibile, credo, anche eseguendo i nostri testi su quel palco.
Il palco è un territorio minato, uno slum duro, dove non ci sono salvacondotti speciali per nessuno, poeti nemmeno, fossero pure in pericolo di estinzione, come i panda.

Marc Kelly Smith, il poeta che ha inventato il Poetry Slam, ha detto una cosa piuttosto sensata: un poeta che fa spoken word, o spoken music deve saper fare bene tutto ciò che fa un poeta lineare per scrivere una poesia che funzioni su carta e in più deve anche essere capace di ‘dirla’ bene su un palco. Mi pare incontrovertibile, a lume di senso comune, almeno….

Ne ho visti un bel po’, ormai, di questi reading con posteggia, ad alcuni ho anche improvvidamente partecipato (chi è senza peccato, scagli!), ne ho provate di queste marmellate, dove, a seconda del ‘colore’ dei versi proposti, senti jazz, o classica, o barocca, o musica da camera, magari samba, o tango: brani scritti per tutt’altra ragione, appiccicati a versi mai pensati per dialogare con la musica, e meno che mai con quella, note incongrue, messe tra un balbettio e un altro, colonna sonora improvvisata (e salvifica) di un teatrino tirato su lì per lì, di un film il cui soundtrack è stato realizzato con quel poco che c’era restato di vinili, giù in magazzino…
Come dimenticare le facce degli spettatori che diventano distese, liete, non appena infine attacca la musica, quelle dei musicisti, spesso tristi, demotivate, in surplace, costretti come sono a far da posteggia a un matrimonio in cui gli sposi sono altri…

Ovviamente tutto questo contribuisce a fare la notte in cui tutte le vacche sono nere, in cui chi davvero lavora con impegno e serietà a sviluppare spoken word e spoken music degni di questo nome viene coperto da un mare di suoni melensi, casuali, cacofonici, aleatori.
L’esatto opposto di quel mèlos di cui discorre con profondità e sagacia Stefano La Via, anch’egli su AbsoluteVille

Il risultato apicale di questa marmellata piuttosto repellente e appiccicosa è l’orribile apicellesco CD per le scuole, prodotto dal Malgoverno in carica, in cui dei supposti cantanti fanno scempio musicale di versi più o meno (alcuni molto meno) celeberrimi, trasformandoli in canzonette dalla pochezza imbarazzante, divorando ogni briciolo di forma poetica a botte di schitarrate e ululati neo-melodici; alcuni di essi versi anch’essi tanto brutti da meritarlo, va detto questo pure, ma altri invece, no, degni di ben altre ugole e attenzioni contrappuntistiche e abilità esecutive.
Ma questo è il fondo. Prima c’è il territorio grigio, lo spazio delle sabbie mobili, quello delle poesie recitate, o balbettate, con intermezzo musicale, quello dei Poeti con Posteggia.
Tra l’uno e l’altro, però, sospetto che qualche nesso ci sia…


1 -noterella teorica

I miei indulgenti lettori sapranno perdonarmi l’ardire di una noterella squisitamente teorica a piè di un intervento che si vuole sarcastico e polemico?
Se lo faccio è per chiarezza, nel senso che nell’utilizzo di termini come spoken word, o spoken music in Ytaglia (e non solo, ahimè) vige una certa confusione.
Acciocché il lettore possa dunque con chiarezza intendere ciò che intendo, propongo due veloci definizioni, schematiche come sono le definizioni, ma spero chiare.
Se non altro si comprenderà ciò che io intendo quando parlo di spoken word o spoken music, se invece saranno addirittura da taluno apprezzate, chissà che non si faccia un po’ di chiaro nelle nebbie.
Potremmo ad esempio metterci d’accordo su una definizione dello spoken word che reciti: è quel particolare tipo di poesia contemporanea nella quale le caratteristiche dell’esecuzione vocale che ne dà il suo autore sono parte integrante delle qualità formali di tale poesia e, per molti versi, anche del testo stesso di quella poesia.
Ovviamente, nel caso in cui ad eseguire il testo poetico non sia l’autore stesso si apre un ventaglio diverso e vastissimo di problematiche formali e teoriche che credo stia trovando agio di svilupparsi negli interventi del blog di Rosaria Lo Russo e in molti dei commenti che li corredano (ad esempio quelli di Nevio Gambula)
Detto questo la spoken music (la poetry spoken music se preferite) sarebbe quel particolare tipo di poesia contemporanea nella quale un testo è accoppiato ad una musica originale e in cui le caratteristiche formali dei suoni, della melodia e dei ritmi musicali e il rapporto da essi stabilito con la vocalità del poeta (a livello sia melodico che ritmico)sono parte integrante della qualità formali di detta poesia e, per molti versi, anche del testo stesso di quella poesia.
O se preferite di tale mèlos.
Riporto qui di seguito, per risparmiarvi la fatica di un ulteriore click quanto sostenuto da la Via:

Mélos significa infatti unione, in un sol corpo, di parola (lógos) musica (armonía) e ritmo (rhythmós). Definizione apparentemente cristallina (in Platone, Repubblica, III: 398 d), che però, nel corso dei secoli, si è prestata alle più varie interpretazioni, potendo in linea di principio riferirsi sia alla poesia concepita per essere cantata (o ‘poesia per musica’), sia a una ‘poesia pura’ che chiede solo di essere letta e ‘ascoltata’ così com’è. Nel primo caso, come ad esempio in una canso trobadorica o in un’aria d’opera, in un Lied romantico o in una moderna canzone d’autore, il testo verbale (lógos) tende a fondersi con quello musicale (armonía) nella pur varia scansione metrica e organizzazione ritmica (rhythmós) di un comune flusso temporale, così da dar vita a una ‘terza dimensione’ linguistico-espressiva: non solo poetica, non solo musicale, ma, appunto, ‘poetico-musicale’”

Chi volesse saperne di più a proposito di ciò che imho va detto a proposito di tali questioncelle teoriche può trovare altri miei conversari qui, nel saggetto recentemente stampato presso Il Verri

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