Haroldo De Campos, trapezista della parola

28 dicembre 2003 Articoli e recensioni
Haroldo De Campos, trapezista della parola

Era una notte piuttosto fredda di un ormai lontano 1988, quando presi un treno che mi permise di vedere l’alba che sorgeva su Ginevra e sul suo lago. A Ginevra andavo perché non avevo resistito alla tentazione di ascoltare Haroldo De Campos, grande poeta brasiliano, padre della poesia concreta e magnifico sperimentatore di qualsiasi forma artistica avesse attinenza con la parola, ospite dell’università cantonale.
Alla fine della conferenza, mi avvicinai alla cattedra e gli misi tra le mani uno dei miei primi libretti di versi e un biglietto con il mio indirizzo. E’ nata così, un po’ per caso, un’amicizia durata poi quasi un quindicennio. Un’amicizia che per me è stata una ’lunga fedeltà’, la mia personale, intimissima e decisiva ’lunga fedeltà’. E ora che Haroldo si è spento, a San Paolo, nella notte del 16 agosto, quasi fosse l’ultima delle stelle cadenti di San Lorenzo, faccio fatica a distinguere tra dolore personale e ricordi letterari.
Nato nel 1929 a San Paolo del Brasile Haroldo de Campos è stata una delle figure guida della Neo-Avanguardia internazionale sin dai giorni del 1952 in cui, insieme al fratello Augusto e a Decio Pignatari, fondava la rivista Noigandres, che apre definitivamente quella stagione delle neo-avanguardie a cui presto si uniranno gruppi di poeti tedeschi, italiani, francesi. Poeta lineare, neo-barocco e fortemente ’espressivo’, e insieme capo scuola della poesia concreta, della poetica che fa dei versi anche segni visivi che abitano lo spazio dell’occhio, la "locomotiva di San Paolo", come lo definì il suo amico e maestro Max Bense, è stato anche semiologo (fu allievo di Pierce) e traduttore fantastico da molte lingue, antiche e moderne (da Arnaldo Daniello a Joyce, sino alla poesia antica cinese, a Omero, da Goethe a Dante) inventore della teoria della Trans-creazione, polemista politico e performer che ha collaborato con molti dei musicisti brasiliani, dall’era della Bossa Nova sino a oggi - penso a Caetano Veloso, che al suo Circuladö de filõ intitolò un suo Cd, forse in ricordo dei tempi in cui la voce di Haroldo e di Augusto de Campos fu l’unica a levarsi in difesa di colui che allora l’establishment culturale brasiliano amava definire ’quel finocchio di Veloso’, sino ai più giovani Marisa Monte e Cid Campos, al poeta-musicista Arnaldo Antunes, al chitarrista Madan, donando loro i suoi testi e spesso anche la sua splendida, inconfondibile voce. Ed è stato prima di tutto grazie a lui che la cultura brasiliana di quegli anni si è rinnovata divenendo quello che oggi è: uno dei laboratori più vivaci, creativi, interessanti del mondo.
All’Italia Haroldo è stato particolarmente legato. Anche la sua è stata una ’lunga fedeltà’, iniziata molto presto, grazie all’amicizia e alla frequentazione di Ungaretti, allora docente all’università paulista e poi proseguita attraverso le splendide traduzioni della Divina Commedia e di Cavalcanti e rinnovata con continue visite in Italia, soprattutto a Venezia, per recarsi sulla tomba del suo amatissimo Pound, e grazie a rapporti strettissimi con molti dei poeti e dei teorici della neo-avanguardia italiana (prima di tutto Umberto Eco e Nanni Balestrini) e anche con alcuni dei più giovani esponenti della generazione degli anni 50-60. Un amore che certo la cultura ufficiale italiana non ha ricambiato, visto che da anni giace in fondo al cassetto di qualche editor einaudiano un’antologia sua e dei Noigandres nella collezione Bianca, un progetto di cui Haroldo parlava spesso per il quale tutto era pronto ormai da tempo, tranne il coraggio di chi avrebbe dovuto dargli il via, troppo impegnato, evidentemente, a seguire le mode del momento, l’irresistibile fascinazione per la mediocrità che sempre conquista i funzionari delle major italiane. Certo è che, a tutt’oggi, in Italia non sono disponibili traduzioni di Haroldo. Né di nessuno dei Noigandres. L’unica collettanea di studi a lui dedicata fu edita dalla rivista Baldus nel 1999. E’, credo, un record non invidiabile, visto che non è condiviso praticamente da nessuna delle culture più diffuse del mondo, poiché Haroldo è tradotto non solo in tutte le lingue occidentali, ma anche in cinese e in giapponese.
Già, perché, sfortune italiane a parte, la sua è stata una carriera ricca di riconoscimenti e di amicizie: quando, nel 1995, l’università di Yale gli dedicò un intero convegno (Symphosophya) a festeggiarlo c’erano poeti di tutti i continenti e a firmare le prolusioni per la cerimonia d’addio dall’insegnamento alla Università Cattolica di San Paolo sono stati intellettuali del calibro di Jules Derrida. Poi giungerà quel premio ’Octavio Paz per la letteratura’, intitolato a uno dei suo migliori amici, di cui fu traduttore infaticabile e con cui firmò Transblanco, raccolta di versioni e corrispondenze a cui l’autore paulista resterà sempre legatissimo.
Le ragioni di un consenso così vasto stanno probabilmente nella sua inimitabile capacità di coniugare e far interagire gusto per la sperimentazione e istinto all’avanguardia, con l’amore e la frequentazione assidua di tutte le maggiori tradizioni letterarie, tanto europee, quanto orientali. Sbaglierebbe, però, chi pensasse che Haroldo De Campos sia stato solo un ’letterato’, piuttosto, per riprendere le sue stesse parole, egli era un «agil atleta da palavra nos trapezios da aventura» e una parte di questa avventura è stata un’avventura politica, ’impegnata’, in un Brasile che, passata la triste esperienza della dittatura militare, muoveva i primi incerti passi verso la democrazia. Già nel 1961, in un suo poema intitolato Servidao de passagem, egli prende chiaramente campo, riserva alla poesia e all’arte un ruolo anche ’sociale’. Per dirla con le parole di David K. Jackson: «In un panorama di "pouca poesia", Haroldo crea una poesia per servire un tempo di fame, nella quale il rituale della nominazione diviene la denunzia di una serie di ingiustizie sociali:"nomeio a fome"».
E da allora, sempre, e prima di tutto nella sua raccolta più importante, le Galaxias, Haroldo ha ’nominato la fame’, e alcune delle più belle tra le sue ultime composizioni sono dedicate ai Sem Terra, perché ancora oggi, come ieri, il nostro è un ’tempo di fame. E dunque, come lui amava dire l’invenzione poetica deve avere il coraggio di «pensar o texto num espaço impensavel".
E’ esattamente questo che mi ha insegnato Haroldo: a immaginare il testo poetico in uno ’spazio impensabile’: forse è per questo che oggi mi pare impensabile anche solo immaginarlo lo spazio, il cosmo della poesia, senza Haroldo e la sua fluente barba bianca, le sue Galaxias. Forse è per questo che oggi, dopo la sua morte, io mi sento così definitivamente povero e mi è così facile pensare che più povera sia anche la letteratura tutta e dunque - infine- ognuno di noi. E mi piace immaginare che ad accoglierlo sulle soglie dell’oltre-mondo dei poeti, con un’amichevole pacca sulle spalle, ci siano i suoi autori più cari: Arnaldo Daniello e i suoi amici trovatori, Dante, Cavalcanti, Pound, Joyce, Joao Cabral de Melo. E che lo invitino a scrivere con loro una bellissima ’renga’, una poesia collettiva, che si apra con un verso che recita: Benvenuto tra noi al ’miglior fabbro’ amazzonico degli idiomi romanzi.

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