Da Bronte a Bagdad

28 novembre 2003 Politica e movimenti
Da Bronte a Bagdad

Bella roba davvero, essere liberati di autocrati e dittatori a colpi di spingarda altrui… Noi terroni ne sappiamo qualcosa. Il Risorgimento - prima che attraverso le pagine della stucchevole retorica alla G. C. Abba - è passato sui corpi dei nostri antenati e di lì si è trasferito nel nostro DNA. A Bronte, per esempio. Le cui strade, fatte le dovute proporzioni, nei giorni della rivolta e dell’assenza di qualsiasi autorità, prima che arrivassero i ’liberatori’ e con i borbonici ormai in fuga, assomigliarono molto a quelle della Baghdad di oggi. E i soldati sabaudi non furono meno sbrigativi di quanto già sono e indubbiamente saranno gli anglo-americani nel momento in cui decideranno che c’è tempo anche per particolari di secondaria importanza, come il rispetto della Convenzione di Ginevra, e che è ora di smetterla di domandarsi, con cosmica improntitudine, dov’è la polizia irachena.
Chi ha dubbi vada a rileggersi le pagine della splendida novella verghiana che si titola Libertà. O riveda le sequenze strazianti del film di Florestano Vancini. E in realtà Bronte non fu che un assaggio di quello di cui sarebbe stato capace Bixio, che pure non poteva contare sulla potenza di fuoco di Rumsfeld. Chi si ricorda di Casalduni e Pontelandolfo, due paesini che, sospettati di complicità con i briganti, furono passati per le armi al completo? Chi si ricorda dei briganti e della loro lotta per la terra? Chi si ricorda che l’Unità d’Italia, a Sud, fu gestita per anni con lo stato d’assedio, la legge marziale, le esecuzioni sommarie? Per far mente locale basterà cercare i discorsi parlamentari dell’Onorevole Ferrari, socialista coraggioso, e poi rabbrividire. I sabaudi portavano la libertà, i contadini aspettavano, più semplicemente, la terra; tragico, terribile equivoco tra la libertà formale, di diritto, e la prima tra tutte le libertà, che era ciò che aspettavano tutti quegli uomini che poi, delusi, presero la via della montagna e che la propaganda savoiarda (e latifondista) chiamò ’briganti’: la libertà dal bisogno. Anche allora la vera posta in gioco era altra e la ’libertà’ non ne era che l’immagine pubblica: i capitali e il mercato per garantire il take-off del capitalismo settentrionale, in cambio del mantenimento dei privilegi dei proprietari feudali meridionali. Della rapina dei capitali del Banco delle Due Sicilie parla un economista come Tabacco, fa cifre, cita documenti.
A quegli anni bui di stato d’assedio non sopravvissero i briganti (né i civili che li accoglievano in casa), ma i ’campieri’, gli antichi cani da guardia del potere borbonico. Oggi li chiamiamo: ’mafiosi’. A quegli anni sopravvisse il latifondo, mentre la libertà, per molti di noi, per decenni, è stata solo quella di continuare a morire di fame, o di emigrare, e la terra ha seguitato ad essere quella del Don Padrone o - al massimo - quella del Sacramento…

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